L'universo comincia a sembrare più simile ad un grande pensiero che non a una grande macchina.
James Jeans, astronomo e fisico.
Non potrei volgere la mia descrizione ad altri argomenti,
senza prima avervi presentato la più incredibile delle storie quantistiche.
Siamo nell’anno 2111 e ci troviamo nella stazione spaziale internazionale. In
questo momento stiamo mettendo appunto gli ultimi preparativi per compiere
l’osservazione di una quasar lontana dieci miliardi di anni-luce da noi. Tutto
è pronto e la nostra equipe si dirige nella sala osservazioni. Il nostro
esperimento sarà destinato a rendere reale una teoria già da tempo sviluppata.
Attraverso un gioco di rilevatori e specchi semiriflettenti ci accingiamo ad
osservare la luce che è partita dalla quasar dieci miliardi di anni fa. Questa
luce, però, due miliardi di anni dopo aver intrapreso il percorso per giungere
fino a noi, ha incontrato una galassia. L’effetto provocato da un simile
incontro ha permesso alla luce di dividersi in due fasci che aggirano la
galassia da parti opposte. Ciò è dovuto all’effetto di lente convergente
definito da Einstein, in quanto le galassie, come tutti gli oggetti dotati di
massa, curvano lo spazio-tempo. Fatto sta che i fotoni hanno aggirato la
galassia in parti opposte, il che implica che ogni fotone sia passato da
entrambi i lati. È dunque evidente che i fotoni durante il loro percorso si
sono comportati come onde e non come particelle. Al momento della rilevazione, la
nostra equipe, ha due possibilità di svolgere l’esperimento. Può osservare
l’interferenza provocata della onde, o può rilevare i singoli fotoni. Allora
proviamo a chiederci se il fotone otto miliardi di anni fa, è passato da
entrambi i lati della galassia, oppure se si è comportato come una particella,
ed è passato da un solo lato. La risposta risiede nelle nostre menti. Cioè
siamo noi, che durante l’esperimento, decidiamo quello che il fotone ha fatto
otto miliardi di anni fa. Infatti a seconda dell’esperimento che noi decideremo
di effettuare, il fotone ci apparirà un’onda o una particella. Nel primo caso
significherà che il fotone è passato da entrambi i lati della galassia, mentre
nel secondo caso, esso, sarà passato da un solo lato. Ma possiamo fare di più:
possiamo decidere qual è il lato che il fotone ha percorso! È come se i fotoni
prima di partire per il loro percorso sapessero già quello che noi uomini
avremmo voluto misurare. Incredibile vero? Einstein non si dava pace, non ha
mai accettato queste stranezze della meccanica quantistica. Purtroppo o per
fortuna, però, questi esperimenti sono stati provati e riprovati in
laboratorio, quindi in linea di principio niente vieta che questi effetti
possano verificarsi anche con l’osservazione di Quasar lontanissime.
James Jeans, astronomo e fisico.
Il
rivoluzionario riluttante
Il lungo percorso che ha portato
alla costruzione della meccanica quantistica iniziò con la più famosa scoperta
di Planck: l’energia è divisa in quanti.
A fine ottocento, inizio novecento due grandi teorie
avevano riscosso molto successo: la teoria dell’elettromagnetismo di Maxwell e la
termodinamica. Entrambe le teorie si trovavano in difficoltà nello spiegare il fenomeno
della radiazione del corpo nero. Questo corpo
ha l’aggettivo nero, poiché si comporta come l’omonimo colore: assorbe
tutta la radiazione elettromagnetica; è ciò avviene in virtù del fatto che
è un corpo con una cavità. Quando la
radiazione entra nella cavità, viene assorbita dalla parete nella
quale si scontra, ma nonostante una parte venga riflessa, la radiazione si scontrerà con un’altra parete, fino a
quando sarà completamente assorbita. Ma la cosa importante da capire sul corpo
nero, è che esso viene preso come riferimento per la rappresentazione di un
corpo ideale, il quale, assorbendo tutta la radiazione, è anche capace di
emetterla completamente. Secondo le teorie di quel tempo, un sistema doveva
emettere radiazione elettromagnetica in funzione della sua temperatura. Quindi
un corpo caldo, secondo la fisica del tempo, emetteva molta radiazione
elettromagnetica, mentre un corpo freddo emetteva comunque
radiazione, ma in pochissime quantità. Inoltre, i fisici, avevano scoperto che
la temperatura era determinata dalla vibrazione delle molecole del materiale.
Questa vibrazione doveva emettere radiazione con una frequenza proporzionale
alla vibrazione stessa. Il problema, dunque, derivava dal fatto che queste
frequenze potevano essere emesse in qualsiasi quantità, anche a livelli
infinitamente piccoli. Naturalmente la radiazione non aveva un energia infinita
(l’energia della radiazione è proporzionale alla frequenza, quindi a frequenza
alte l’energia sarà alta, mentre a frequenza basse l’energia sarà debole),
dunque qualcosa andava cambiato. A questo punto arrivò il fisico Max Planck, il
quale propose che l’energia venisse emessa e assorbita in quantità discrete: i
quanti. La frequenza, quindi, poteva avere solo determinate quantità. Ma
andiamo per gradi.
Abbiamo detto che a quei tempi si
credeva che l’energia fosse trasportata dalla radiazione elettromagnetica, che,
come sappiamo, è un’onda, perciò la sua natura implica che sia un continuo. Per
capire cosa sia un continuo, basta immaginarsi di salire una strada, in questo
caso è possibile percorrere passi lunghi o corti, a seconda di come preferite.
Planck, quindi, scoprì che la natura dell’energia era divisa in pacchetti.
Ovvero l’energia non era emessa e assorbita in quantità indefinite (passi
lunghi o corti), ma era divisa in pacchetti multipli di una costante, come i
gradini di una scala. L’energia, quindi, dovrebbe essere calcolata in multipli
della costante di Planck e perciò potrà essere: 2h 3h 4h 5h..dove h è la
costante. In questo modo, il fisico, arrivò a definire la formula E=hf, la quale, implica, che l’energia della
radiazione elettromagnetica fosse data da h, ovvero la costante di Planck, per f,
la frequenza della radiazione elettromagnetica. Facendola semplice la frequenza
determina l’energia, ed essendo moltiplicata per una costante, acquista la
capacità di potere avere solo delle quantità discrete, i quanti. Il problema di
Planck fu che per tutta la vita rifiutò la sua scoperta, o meglio credeva che
l’energia fosse divisa in quanti, solo al momento dello scambio con la materia,
e che negli altri momenti fosse soltanto radiazione elettromagnetica. Fu Albert
Einstein a scrivere il primo articolo sul quanto, come entità di cui è composta
la luce. Einstein aveva scoperto che l’energia di un quanto di luce gialla era
calcolata moltiplicando la costante di Planck, per la frequenza della luce
gialla. Nessuno a quei tempi, però, credette alla teoria di Einstein. Così, il
fisico, tentò di dare credibilità alle sue ipotesi, cercando di spiegare un
fenomeno che era sottoposto a molti studi all’epoca. Nel 1887 Hertz aveva
osservato per la prima volta l’effetto fotoelettrico: quando un metallo viene
colpito da radiazione elettromagnetica (e quindi da fotoni) la superficie
emette degli elettroni. Secondo Einstein, il numero di elettroni estratti, dipende
dall’energia del fotone, che è proporzionale alla frequenza dell’onda luminosa.
Di conseguenza all’aumentare dell’intensità del fascio luminoso, aumenta il
numero di elettroni emessi. Ciò nonostante, la sua scoperta, non bastò a
rendere credibile la sua teoria, in quanto tutti erano ancora convinti che la
luce fosse quantizzata solo durante l’incontro con la materia.
Oggi sappiamo che Einstein aveva
ragione, e che i famosi quanti della radiazione elettromagnetica sono i fotoni,
particelle di luce, i quali hanno una doppia natura: ondulatoria e
corpuscolare. Sono onde e particelle, come del resto tutte le particelle. Ma di
questo ne parleremo dopo. Naturalmente quello che oggi è chiaro, è che i
fotoni, essendo quantità ben definite, danno un carattere discreto alle onde,
le quali possono vibrare solo con frequenze che permettono la quantizzazione
della radiazione. Inoltre a permettere alla radiazione di essere emessa, ci
pensano gli elettroni, che passando da uno stato ad un altro, emettono un
fotone, in virtù di una perdita di energia pari a quella emessa sottoforma di fotone, e quindi di
radiazione elettromagnetica (ciò è dovuto alla legge sulla conservazione di
energia, la quale afferma che l’energia di un sistema rimane costante). Quindi
l’elettrone che perde energia, passando ad uno stato meno energetico, deve
rendere conto di questo difetto ed emettere un fotone, per far quadrare i
conti.
Dibattiti
sulla natura corpuscolare o ondulatoria della luce
Fin dai tempi di Newton, il quale
introdusse il concetto di corpuscolo, il dibattito sulla natura della luce è
aperto. Newton spiegava molti fenomeni da lui osservati, attraverso la
definizione della luce come un fascio di particelle. Questa idea era in
contrasto con quella di Huyges, il quale era convinto che la natura della luce
fosse ondulatoria. A mettere chiarezza su questo dibattito, venne Thomas Young,
quando osservò per la prima volta l’interferenza della luce. Anch’esso era
convinto che la luce fosse un onda, e mise appunto un esperimento per dimostrarlo.
Egli fece passare un fascio di luce da due fessure parallele, osservando delle
interferenze nel pannello posizionato dietro. Questo effetto implicava che la
luce fosse un onda, poiché si comportava come le onde generate dal lancio di un
sasso in uno stagno. Le onde generate, infatti, finiranno per incontrarsi, e al
momento dello scontro potranno succedere due cose: due onde uguali si
sommeranno, e la loro ampiezza raddoppierà; oppure due onde opposte si andranno
a sottrarre, e scompariranno. Analogamente, quello che succede nello stagno, è
stato osservato da Young nel pannello. Questa scoperta definì la natura
ondulatoria della luce, fino a quando tutto fu sconvolto dalla scoperta di
Planck.
Il
problema della teoria dei quanti
Attraverso la scoperta
dell’elettromagnetismo, Maxwell, scoprì che le onde elettromagnetiche viaggiano
alla velocità della luce. Secondo la sua deduzione, quindi, la luce era un
fenomeno di radiazione elettromagnetica. Einstein che nacque proprio quando
morì Maxwell, ideò la sua teoria dei quanti proprio sulle basi
dell’elettromagnetismo. Infatti, secondo il fisico, l’energia di un quanto era
calcolata dalla frequenza della radiazione, che è un fenomeno elettromagnetico.
Il problema della teoria dei quanti, però, era determinato dal fatto che non
tutti credevano nell’esistenza dell’atomo. La soluzione a questo problema venne
dal moto browniano: se si mettono dei granelli di polvere sulla superficie
dell’acqua, si può notare che essi iniziano a muoversi a zig zag. Il loro moto,
però, può essere spiegato solo dalla presenza di atomi. Infatti attraverso le
collisioni atomiche, i granelli si metterebbero in moto, determinando i loro
spostamenti a zig zag; ma questo non era tutto. Einstein si rese conto che se
le collisioni atomiche tra l’acqua e i granelli, avvenissero da tutte le
direzioni, i granelli rimarrebbero fermi. Il fisico, dunque, arrivò alla
conclusione che gli atomi si dovrebbero unire ai granelli, in gruppi.
Attraverso questo ragionamento, quindi, riuscì non solo a dimostrare
l’esistenza degli atomi, ma ne definì pure la dimensione. La seconda scoperta
sugli atomi, del fisico, fu che essi, quando sono riscaldati, possono oscillare
solo a determinate frequenze, multiple di una frequenza base. Fu così che
scoprì che gli atomi assorbono ed emettono energia in forma quantizzata.
L’atomo di
Rutherford
A questo punto venne il turno di
Rutherford. Egli scoprì che la radioattività è la trasmutazione di un elemento
in un altro, attraverso l’emissione di radiazione; lo stesso identico processo
avviene dentro le stelle, quando l’idrogeno si trasforma in elio, attraverso la
fusione termonucleare. La radiazione provocata da questo processo è anche la
luce con cui il Sole ci illumina ogni giorno. A quei tempi, Rutherford, aveva
inoltre iniziato a fare esperimenti con i raggi α, sparandoli contro un foglio
d’oro. Così facendo, il fisico, si rese conto che una piccolissima parte dei
raggi che sparava, si scontrava e tornava in dietro; mentre buona parte passava
attraverso il foglio. In seguito a questa scoperta disse: “era come cercare di
sparare un moscerino nella Albert Hill di notte”. Questa scoperta cambiò
radicalmente la concezione che si aveva, a quei tempi, dell’atomo. Infatti,
fino a quel momento, l’atomo era stato
immaginato come una palla piena di elettroni. Rutherford, con la sua scoperta,
dimostrò dunque, che esso è composto da un nucleo interno, intorno al quale
ruotano gli elettroni. Ma, ancora più incredibilmente, scoprì che l’atomo è per
la maggior parte vuoto, infatti se il nucleo fosse grande come una mela, gli
elettroni gli ruoterebbero a 2 km di distanza. L’unica pecca del suo modello
atomico, era che stando alle teorie classiche, l’elettrone avrebbe dovuto
compiere un movimento a spirale intorno al nucleo, fino a finirci dentro. E ciò
avrebbe dovuto avvenire in s!
Il modello
atomico di Bohr
Bohr, che era un grande ammiratore
di Rutherford, arrivò alla soluzione di questo problema. Come un bravissimo
investigatore iniziò a cercare indizi, e via via mise a posto tutti i tasselli
del puzzle. Il risultato fu che l’elettrone poteva ruotare solo in stati
stazionari, acquisendo stabilità. In pratica un elettrone rimane per un certo
periodo di tempo in uno stato stazionario, in seguito compie un salto quantico,
e così continua fino a che arriva allo stato fondamentale, in cui non ha più
sufficiente energia per permettersi di irradiarla. Bohr, in questo modo, aveva
introdotto per la prima volta l’idea che gli elettroni ruotassero intorno al
nucleo in precise orbite, e che i salti quantici erano salti che l’elettrone compiva al momento in cui scivolava in uno stato
diverso. Il secondo grande passo
compiuto da Bohr fu capire che l’atomo è quantizzato. Ma a permettergli di fare
questa scoperta, fu un’altra scoperta fatta nello stesso periodo da Nicholson.
Nicholson, a quei tempi, aveva stabilito che l’elettrone era dotato di momento
angolare. Il momento angolare si trova moltiplicando la massa, per la velocità,
per il raggio, ed è la misura dell’impeto del movimento rotazionale. Anche il
momento angolare è quantizzato, ed equivale a H/2 dove H è la costante di
Planck. Nicholson aveva dimostrato che il momento angolare poteva valere solo
per 2(H/2), 3(H/2), 4(H/2 etc, in quanto è quantizzato e si trova per multipli
di se stesso. A questo punto, Bohr, si rese conto che erano permesse solo
quelle orbite, il cui momento angolare era un numero intero n, moltiplicato per
H e diviso per 2. Grazie a questo, Bohr, dimostrò i sui stati stazionari. Ma
per completare il suo modello, il fisico, scoprì anche che un elettrone che si
trova in n=1, e che riceve abbastanza energia, salta in n=2, e che una volta
persa la sua energia torna in n=1. Ogni volta che un elettrone salta di
livello, inoltre, emette un quanto di energia pari alla differenza tra i due
livelli. Grazie a questa scoperta, Bohr, si rese conto che la radiazione
elettromagnetica è emessa dagli atomi, sottoforma di quanti di energia. Il
problema in questo caso è che l’elettrone non può stare nello spazio che c’è
tra n=1 e n=2, perché non è permesso dal modello. Quindi deve accadere qualcosa
di strano, come se l’elettrone, istantaneamente, saltasse da n=1 a n=2. Un
ulteriore aggiunta al modello atomico di Bohr, la dette Albert Einstein.
Secondo il modello non ancora modificato, gli elettroni potevano spostarsi
nelle orbite in due modi: il primo modo, era l’emissione spontanea, e avveniva
con il salto di un elettrone da uno stato all’altro, determinando l’emissione
di un quanto di luce. Il secondo caso avveniva con l’assorbimento di un quanto
di luce, da parte dell’elettrone. Ciò comportava, inoltre, lo spostamento
dell’elettrone ad uno stato inferiore. L’aggiunta di Einstein riguardava un
terzo modo in cui gli elettroni potevano spostarsi nelle orbite. Il caso
introdotto dal fisico si chiama emissione stimolata, e avviene quando un quanto
di luce colpisce un elettrone in un atomo già in stato eccitato. In questo caso
l’elettrone non assorbe il quanto, ma lo respinge; inoltre viene stimolato a
salire di livello, comportando a sua
volta l’emissione di un altro quanto di luce. Questa scoperta è stata di
fondamentale importanza, poiché sta alla base dei laser, che, come sapete,
trovano applicazioni in un gran numero di attività (dalla medicina, ai
computer, ai tagli industriali, ecc.)
A concludere il modello atomico di
Bohr ci pensò Sommerfeld. Egli scoprì che le orbite degli elettroni possono
essere anche ellittiche, e che ogni atomo ha diverse possibilità di
configurazione. Inoltre scoprì che gli elettroni, come i pianeti, sono soggetti
a relatività, per questo, quando l’elettrone si trova più vicino al nucleo,
aumenta la sua velocità e di conseguenza la sua massa.
L’introduzione
della probabilità
L’idea di Bhor sugli stati
stazionari era impeccabile. Però sorgeva un nuovo problema: Rutherdford si
domandò come un elettrone che si trova in uno stato eccitato, possa sapere dove
andrà a cadere, e soprattutto come fa a sapere quando saltare. Per avere
risposta a questa domanda, Rutherdford, dovette aspettare 12 anni, quando il
fisico Born dette la risposta. La teoria dei quanti non poteva prevedere quando
e come l’elettrone doveva saltare da uno stato all’altro, ma poteva calcolare
solo una probabilità che questo accadesse in un certo modo. Quello che è
importante capire, però, è che questa probabilità non è la stessa probabilità
che conosciamo noi, ovvero quella classica del lancio della moneta. Tutte le
probabilità a noi comuni derivano da una mancanza di informazioni: se potessimo conoscere la velocità, l’angolo
di rotazione e altri parametri, potremo conoscere con esattezza il risultato
del lancio della moneta. Nel micro mondo la probabilità non è di questo tipo,
ma è una probabilità fondamentale. Ovvero non è dettata dalla mancanza di
informazioni, ma è intrinseca nel sistema. Anche se conoscessimo tutte le
informazioni necessarie sull’elettrone, esso potrebbe saltare da uno stato
all’altro sempre secondo probabilità, non potremo prevedere quando e dove. La
stessa probabilità fondamentale vale anche per il decadimento radioattivo,
infatti non è possibile conoscere il momento in cui un atomo decadrà, né se la
particella che emetterà sarà alfa o beta. In seguito a tutte queste innovazioni
la teoria dei quanti stava prendendo forma, ma molte sono ancora le scoperte
per arrivare ad una teoria completa. La più importante di quei tempi fu quella
fatta da Albert Einstein: egli scoprì che i quanti di luce sono una grandezza
vettoriale e quindi dotati di direzione. Ma la cosa straordinaria è che la
transizione spontanea e la direzione del quanto di luce sono del tutto casuali.
Ovvero non si può, conoscendo le condizioni iniziali, costruire un modello che
riproduca con esattezza quello che accade all’interno dell’atomo. Il tutto è
opera del caso, non si possono fare predizioni. L’unica cosa che si può fare è
calcolare delle probabilità che accada in un certo modo, ma non si può
prevedere niente con esattezza. Ad esempio nel caso della transizione,
l’elettrone cade nel livello più fondamentale, in un atomo eccitato, ma il
momento della transizione rimane dettato dal caso. L’unica cosa che possiamo
sapere è che ci sarà una grossa probabilità che cada molto presto, ma c’è
comunque una piccola probabilità che ci metta molto tempo per cadere. La cosa
interessante è che quando si parla di probabilità a livello atomico le cose si
fanno contro intuitive. Quando abbiamo parlato del decadimento alfa, abbiamo
detto che una particella alfa, per oltrepassare la barriera coulombiana ci può
mettere anche milioni di anni, perché si deve presentare l’effetto tunnel. Ma
quando si parla di atomi bisogna considerare che in un centimetro cubo ci sono
circa atomi. Quindi 200 000 000 000 000
000 000 000 atomi. Per questo conosciamo l’effetto tunnel. Non è che gli
scienziati si mettono ad osservare un atomo e dopo qualche milione di anni
osservano il risultato previsto. Quando si parla di cifre cosi grosse è
naturale che un evento rarissimo per il singolo, accada molto spesso per il
gruppo.
La
conferma della teoria dei quanti
Nel 1923 Compton, quasi per caso, ed
in seguito ad alcuni esperimenti sui raggi x, trovò la conferma della teoria
dei quanti. Il suo esperimento consisteva nello sparare raggi x contro degli
elementi come il carbonio. Il suo esperimento, inoltre, era volto ad osservare,
se e come, avveniva una variazione della lunghezza d’onda dei raggi deviati dal
materiale. In pratica quando sparava i raggi x contro il carbonio, parte dei
raggi veniva diffusa a vari angoli, dunque, il suo scopo, era quello di
determinare se questi raggi diffusi fossero in qualche modo diversi da quelli
incidenti. Il risultato dell’esperimento confermò l’idea che i raggi diffusi
avessero lunghezza d’onda differente da quella dei raggi incidenti. Inoltre, il
fisico, si rese conto che i raggi deviati acquistavano sempre una lunghezza
d’onda maggiore di quella dei raggi che colpivano il carbonio. Sarebbe come
sparare un raggio di luce blu verso l’elemento e vedere deviare luce rossa. La
teoria elettromagnetica di Maxwell e quindi quella ondulatoria, non ammetteva,
però, questi risultati; perciò la spiegazione doveva stare nei quanti di luce
di Einstein. Fu così che Compton si rese conto che i quanti di luce spiegavano
perfettamente quello che accadeva: se un quanto di luce si scontra con un elettrone,
cede ad esso parte dell’energia e viene deviato, ma solo dopo che questa
energia viene ceduta all’elettrone che subisce il rinculo. A questo punto
secondo semplici formule riuscì a comprendere che in questo caso la lunghezza
d’onda sarebbe variata.
Ora venne il bello. L’intera
comunità scientifica sapeva che la teoria ondulatoria della luce poteva
benissimo descrivere i fenomeni, come l’interferenza e la diffrazione. Altresì
la variazione di lunghezza d’onda da parte dei raggi x, poteva essere spiegata
solo considerando la luce come divisa in pacchetti, i quanti. Ma allora la
luce, si chiesero tutti, è un’onda o una particella?
La dualità
onda-particella
È ormai evidente che la luce sia
solita comportarsi sia come un’onda, che come una particella. Ma a sconvolgere
ancora di più lo stato d’animo degli scienziati di tutto il mondo, ci pensò il
principe Louis De Broglie. Egli era già da tempo convinto che la natura
corpuscolare e quella ondulatoria della luce, avessero lo stesso valore. Ma la
sua intuizione fu incredibile, nonostante in lui, l’idea della dualità fosse
già avanzata. Egli si chiese: se la luce si comporta sia come un’onda che come
una particella, perché anche un elettrone non si può comportare nello stesso
modo? La risposta fu affermativa, nel senso che anche gli elettroni si
comportano in entrambi i modi. Infatti, se ad un elettrone si associa un’onda,
si può determinare la sua posizione all’interno dell’atomo; altresì se si
considera l’elettrone come un’onda, esso non ha più motivo per collassarsi nel
nucleo: viene dunque svelato un altro mistero. Nonostante, comunque, questa
scoperta sia avvenuta a carico del principe Louis De Broglie, la dualità
onda-particella venne dimostrata nel 1937 da George Thomson e Davisson, i quali
si presero il premio Nobel.
Se l’elettrone è sia un onda che una
particella, allora qualsiasi cosa composta da elettroni, è sia un’onda che una
particella. Quindi tutta la materia che osserviamo nel mondo ha una doppia
natura; noi stessi abbiamo una doppia natura. Esperimenti recenti dimostrano,
inoltre, che il fenomeno della dualità vale sia per fotoni che per elettroni,
ma anche per atomi e persino per le molecole di fullerene (formate da sessanta
atomi). Al momento si stanno progettando esperimenti con oggetti molto più
grandi come i virus; dunque, in linea di principio, nulla vieta che anche una
persona possa interferire con se stessa.
La
scoperta dello spin
Nel 1922 tutti i fisici del
palcoscenico europeo, erano impegnati alla ricerca della soluzione all’effetto
Zeeman anomalo. Questo effetto si presenta quando si sottopongono gli atomi a
forti campi magnetici. Gli spettri atomici prodotti, presentano delle righe
spettrali scisse in varie componenti. Secondo l’effetto Zeeman normale, le
righe si possono scindere in un doppietto o un tripletto. La spiegazione a tale
effetto era già stata proposta da Sommerfield, il quale introdusse delle regole
per i salti orbitali degli elettroni. In pratica i salti producevano delle
righe spettrali scisse i doppiette o triplette. Sommerfield aveva dunque
assegnato 3 numeri quantici all’elettrone:
N= dimensione dell’orbita
K= forma dell’orbita
M= direzione di orientamento
dell’elettrone
Ma il vero problema restava
l’effetto Zeeman anomalo, ovvero la scissione delle righe spettrali in
quadriplette.
Pauli si rese conto che la
soluzione a questo problema, probabilmente, risiedeva nel modello atomico di
Bohr. Secondo le regole di questo modello atomico, niente impedisce agli
elettroni di oscillare tutti al solito livello energetico. La sua intuizione,
quindi, fu di assegnare un quarto numero quantico all’elettrone, in modo da
permettere agli elettroni di ruotare solo in orbite stabilite; e a questo
numero fu attribuito l’appellativo di binario, in quanto poteva assumere solo
due valori. Con il quarto valore introdotto, Pauli, formulò il suo principio di
esclusione, secondo cui due elettroni non possono avere i quattro valori
uguali. Ma nessuno, nemmeno Pauli stesso, conosceva la vera natura del quarto
numero quantico. Il fattore positivo, però, era che il quarto numero permetteva
di spiegare l’effetto Zeeman anomalo, in quanto aumentava il numero possibile
di stati quantici. Nel frattempo gli scienziati Goudsmit e Uhcenbeck iniziarono
a riflettere sulla natura del quarto numero quantico. La loro riflessione partì
dal fatto che ogni numero quantico definisce un grado di libertà, ovvero la
possibilità di muoversi in alto o in basso, a destra o a sinistra, in su o in
giù, avanti o in dietro. Da qui ipotizzarono che anche il quarto numero quantico
doveva avere un grado di libertà, e quindi doveva avere un carattere fisico di
movimento. L’unico possibile movimento che un elettrone poteva fare oltre a
quelli conosciuti, era la rotazione. Naturalmente, come tutto ormai all’interno
dell’atomo è quantizzato, anche la rotazione dell’elettrone deve esserlo, e
quindi doveva poter assumere solo due valori: su e giù, ovvero, senso orario o
antiorario. (l’elettrone i grazie a questa rotazione produce campo magnetico.)
I fisici attribuirono a questa rotazione
l’appellativo di spin. Questa scoperta fece cadere la possibilità di potersi
immaginare quello che avviene all’interno dell’atomo in termini classici. Lo
spin è il limite di pensiero che divide il macro mondo dal micro mondo. Per
quanto cerchiate di immaginarvi lo spin dell’elettrone, sappiate che non lo
capirete mai. Non siete sicuri? Riflettete allora su questo esempio Considerate la terra come fosse una particella. Supponiamo
di essere sulla luna e di osservare in un determinato momento l'Europa. La
Terra per tornare alla configurazione in cui noi la vediamo, deve ruotare di
360 gradi, e noi poniamo che questo corrisponda ha spin 1. Una particella con
spin 2 per tornare alla configurazione di osservazione, deve ruotare di 180
gradi. Mentre le particelle di spin ½ devono compiere due rotazioni di 360
gradi per tornate alla loro configurazione iniziale. Assurdo vero?
Verso la
meccanica quantistica
A questo punto entrò in gioco il
giovane Werner Heisenberg, l’ideatore del famoso principio di indeterminazione.
Ma prima di arrivare a questa grande scoperta, il percorso da lui intrapreso fu
molto lungo. Inizialmente la sua grande intuizione fu di cominciare a pensare
all’atomo come qualcosa di completamente diverso dalla natura classica delle
cose. L’atomo, secondo lui, non era un entità che ci possiamo immaginare; non è
un sistema solare in miniatura. La meccanica quantistica che si stava per
formare non poteva essere immaginata come si immagina la meccanica classica,
non si può disegnare un atomo. Non lo si può nemmeno riprodurre in un filmato:
esso è un entità che si discosta dalla nostra esperienza quotidiana.
Prendete per esempio il salto quantico.
Se potessimo avere la fortuna di poter osservare questo evento, non vedremo
l’elettrone che compie un salto da uno stato all’altro, ma vedremo un elettrone
che prima si trova in uno stato, e subito dopo nell’altro, senza essere passato
dalla metà. Heisenberg si mise in testa di capire i salti quantici degli
elettroni nell’atomo di idrogeno, e si rese conto di aver scoperto un modo per
trovare le frequenze e le transizioni dell’elettrone nel salto quantico. Ma,
cosa ancora più importante, aveva capito che queste frequenze e transizioni
erano riconducibili alla posizione e alla quantità di moto dell’elettrone. Poi
cominciò a fare un’analogia con il sistema solare (solo per convenienza) e si
immagino che l’elettrone ruotasse intorno al nucleo, a enormi distanze, come se
il nucleo fosse grande come una mela, e l’elettrone ruotasse a due chilometri
di distanza. In questo modo la frequenza orbitale dall’elettrone era pari alla
frequenza della radiazione che esso stesso emetteva. Attraverso questo
stratagemma poteva calcolare la posizione e la quantità di moto dell’elettrone.
Rimaneva solo un problema. Nei suoi calcoli non valeva più la proprietà
commutativa per la quale A x B è uguale a B x A. Ma la soluzione venne presto
da Born, il quale introdusse la matrice nei suoi calcoli; così che la proprietà
commutativa non doveva più necessariamente valere.
L’equazione di Schrodinger
Nel 1925 Erwin Schrodinger fece la sua famosa scoperta. Egli
lesse la tesi di De Broglie sulla dualità onda particella, e vide che non c’era
nessuna equazione che descriveva l’onda. Così la sviluppò lui, in opposizione
alla meccanica matricale sviluppata da Heisenberg. In pratica tutto quello che
aveva scopeto Heisenberg, descriveva la natura dell’elettrone, come una
particella, mentre Schrodinger, la descriveva come un’onda. La differenza tra
le due descrizioni, era che l’onda di Schrodinger permetteva di risolvere i
problemi molto più facilmente. Ma cos’è che si muove come un’onda? si chiesero
i tutti i fisici. Al tempo si sapeva che le onde sonore, per esempio, sono il
risultato di un insieme di particelle che si scontrano e si cedono energia
potenziale, a diversi intervalli. Ma non si riusciva a capire cos’era l’onda di
Schrodinger. Egli credeva che le particelle fossero solo un’illusione, in realtà
per lui esistevano solo le onde. Di diversa opinione era Born, il quale sapeva
che la funzione d’onda dava per risultato un numero complesso, e quindi
qualcosa di non reale, però sapeva anche che il numero complesso da per
risultato un numero reale, che può essere associato ad una grandezza fisica
reale. A dare credito a Born c’erano le prove schiaccianti degli esperimenti
sull’effetto fotoelettrico e sull’effetto Copton. L’idea di Born, quindi, era
questa: entrambe le teorie sono vere, ma con una distinzione; l’onda di Schrodinger
è solo una descrizione astratta delle probabilità. In pratica, secondo la
meccanica classica, se lancio una pallina con una certa intensità, in una certa
direzione, potrò sapere dove essa mi andrà a finire. Mentre secondo la
meccanica quantistica, l’elettrone ha diverse probabilità di diffusione. Born
allora ipotizzò che l’onda avesse a che fare con le probabilità. Nel senso che
l’onda doveva essere solo una distribuzione delle probabilità in cui poteva
essere diffuso l’elettrone. La funzione d’onda, quindi, doveva comprendere
tutte queste probabilità. Al momento della misurazione, infatti, la funzione
d’onda collassa, e uno dei possibili stati dell’elettrone diventa reale. Quindi,
fino a che non avviene una misurazione, l’elettrone non esiste in nessun luogo,
ma in diverse probabilità. Dunque, la funzione d’onda, esiste prima della
misurazione, mentre la particella esiste dopo la misurazione. Grazie a questa
interpretazione si capì che entrambe le teorie (onda e particella) erano
entrambe esatte, se viste sotto l’interpretazione del dualismo onda-particella.
Il gatto di Schrodinger
Per dimostrare che la meccanica quantistica non era completa Schrodinger
ideò il paradosso del gatto:
“Si rinchiuda un gatto in una
scatola d’acciaio insieme con la seguente macchina infernale (che occorre
proteggere dalla possibilità d’essere afferrata direttamente dal gatto): in un
contatore Geiger si trova una minuscola porzione di sostanza radioattiva, così
poca che nel corso di un’ora forse uno dei suoi atomi si disintegra, ma anche
in modo parimenti verosimile nessuno; se ciò succede, allora il contatore lo
segnala e aziona un relais di
un martelletto che rompe una fiala con del cianuro. Dopo avere lasciato
indisturbato questo intero sistema per un’ora, si direbbe che il gatto è ancora
vivo se nel frattempo nessun atomo si fosse disintegrato. La prima
disintegrazione atomica lo avrebbe avvelenato. La funzione Ψ dell’intero sistema porta ad affermare che in essa il
gatto vivo e il gatto morto non sono stati puri, ma miscelati con uguale peso.”
Erwin Schrodinger.
In pratica Schrodinger voleva far
notare l’assurdità della meccanica quantistica, applicando le sue implicazioni
al macromondo. Naturalmente, considerando un gatto invece di una particella,
l’effetto è sicuramente maggiore, in quanto risulta assai assurdo pensare che
un gatto possa essere sia vivo sia morto. Ormai, però, è appurato che nella subatomica dell’atomo le
cose funzionino proprio così, e per ironia della sorte, il gatto di Schrodinger
è diventato il cavallo di battaglia nella descrizione divulgativa della
meccanica quantistica. Questo paradosso è nato per screditare la meccanica
quantistica ed è finito per esserne una prima descrizione.
Il principio di
indeterminazione
Heisenberg, nel 1927, fece la sua più grande scoperta: il principio
di indeterminazione. Il giovane fisico si immaginò di osservare un elettrone
con un microscopio elettronico, ma si rese conto che in ogni modo cadeva in un
guaio. Qualsiasi cosa, infatti, per essere vista deve essere illuminata. Ma nel
momento in cui si illumina l’elettrone per vederlo al microscopio, si
presentano dei problemi. Infatti, per essere visto bene, un elettrone deve
essere illuminato alle frequenze dei raggi gamma, e ciò determina una
indeterminazione; seguitemi. Nel momento in cui il fotone che va ad illuminare
l’elettrone, si scontra con esso, e, oltre a trasferirgli energia luminosa, gli
trasferisce anche parte della sua energia cinetica, modificandone la direzione;
proprio come in una partita di biliardo in cui si scontrano due palle. Se però
volessi vedere più precisamente l’elettrone, e non la sua direzione deviata,
dovrei diminuire la frequenza, rendendone impossibile la visione. Quindi tanto
più precisamente misurerò la posizione dell’elettrone, meno capirò la sua
velocità, e viceversa. Così che il principio di indeterminazione di Heisenberg
dice proprio: non si può conoscere la posizione e la velocità di un elettrone
contemporaneamente. Grazie a questo principio, Heisenberg, dette più valore
alla sua meccanica matriciale, sostenendo che se velocità e posizione non
possono essere misurate contemporaneamente, la proprietà commutativa non deve
più essere necessariamente rispettata. Ma Heisenberg andò ancora più a fondo,
definendo il principio di indeterminazione come intrinseco nella natura. Non
era solo un problema di misurazione, era una questione più profonda; ancorata
nella natura stessa. Ogni cosa dunque, secondo il fisico, è soggetta al
principio di indeterminazione, poiché anche un semplice sguardo può essere
considerato una misurazione, ed in quanto tale, permette al principio di valere
ovunque. L’elettrone, quindi, non ha una posizione o una velocità, se non è
osservato; esso è definito dall’osservazione. Ma rimaneva ancora una cosa da
chiarire: la traiettoria dell’elettrone. Se si osserva un elettrone, infatti,
lo si sposta dal luogo dell’osservazione, così che esso, esiste solo nel luogo
della misurazione. Se si volesse definirne una traiettoria si dovrebbe compiere
una seconda misurazione, ma ancora, solo il luogo della misurazione sarebbe
chiaro, così che la traiettoria si potrebbe solo immaginare. L’esistenza stessa
della traiettoria dell’elettrone perde quindi di significato, in pratica la
traiettoria dell’elettrone non esiste. Tutte queste idee, Heisenberg, le fece
presenti a Bohr, il quale gli fece notare che l’indeterminazione poteva essere
spiegata dalle onde. Anzi forse il principio di indeterminazione era proprio la
chiave per capire la dualità onda-particella; era la linea di confine in cui le
due realtà potevano coesistere. Ciò che determina l’esistenza di un’onda o di
una particella è l’esperimento che si effettua. L’esperimento stesso determina
la natura dell’elettrone. Per esempio l’esperimento di Compton dava ragione
alle particelle, mentre l’esperimento di Young dava ragione alle onde.
L’effetto tunnel
Una importante conseguenza del principio di indeterminazione è
l’effetto tunnel. Come abbiamo detto esiste una barrira coulombiana all’interno
dell’atomo che non permette alle particelle di passare. In realtà nella
stragrande maggioranza di casi è così, però ci possono essere delle eccezioni.
Secondo la funzione d’onda di Schrodinger, infatti, ci possono essere delle
probabilità in cui la particella si trovi oltre la barriera coulombiana. Per
farvi capire quanto è assurdo questo fatto, pensate ad un pallone che deve
oltrepassare un dislivello. Naturalmente per far arrivare il pallone nel punto
desiderato, è necessario imprimergli una certa quantità di energia. Ora,
immaginatevi che il pallone si trovi nel punto desiderato, avendo oltrepassato
il dislivello, ma senza aver ricevuto l’energia necessaria. Assurdo vero? Beh
se volete la prova di questo effetto alzate gli occhi al Sole e guardatelo; se
si trova sempre li, significa che l’effetto tunnel esiste, in quanto,
altrimenti, il Sole non avrebbe la temperatura necessaria per innescare le
reazioni nucleari.
L’interpretazione di
Copenaghen e la realtà oggettiva
Bohr si stava sempre più convincendo delle sue idee. Egli
credeva che il principio di indeterminazione di Heisenberg fosse la prova
schiacciante della sua verità. Il fisico si era convinto che l’elettrone
acquista la sua natura solo dopo l’osservazione; diventa un’onda o una
particella solo dopo che viene effettuato l’esperimento. Addirittura, secondo
Bohr, l’elettrone che non è misurato non ha posizione né velocità, e nemmeno
una traiettoria; l’elettrone che non è misurato non esiste. Solo l’atto
dell’osservazione dona realtà all’elettrone. In seguito, dopo la morte di Bohr,
venne dato il nome “di Copenaghen” alla sua interpretazione.
Di diverso parere era Albert Einstein, il quale fino al giorno
della sua scomparsa, non si convinse mai della teoria di Bohr. Einstein era
convinto che ci fosse una realtà oggettiva e stabile, che persiste anche quando
non è misurata. L’elettrone non poteva essere un’onda o una particella, doveva
avere un carattere oggettivo in base a qualche legge che ancora non si
conosceva. Queste ipotetiche leggi ignote erano definite variabili nascoste e
in seguito vedremo che è possibile (quasi), attraverso di esse, conoscere la
verità sulla reale interpretazione della meccanica quantistica.
In seguito presenterò altre interpretazioni della meccanica
quantistica, ma ora rimaniamo su quella di Bohr e quella di Einstein, dato che
hanno caratteri opposti, ma su cui si ritrovano molte altre interpretazioni.
La sfida tra Einstein e
Bohr
Nel 1926 ci fu un convegno a Solvey in cui si riunirono i più
grandi fisici del tempo. La discussione principale era l’interpretazione della
meccanica quantistica. Dopo l’intervento di Bohr sulla sua interpretazione,
intervenne Einstein proponendo un esperimento mentale. Questo esperimento fu
subito controbattuto in maniera efficace da Bohr, ma le cose in seguito si
fecero più complicate. Il secondo esperimento mentale proposto da Einstein ebbe
molto più effetto, e la risoluzione da parte di Bohr fu molto più riflettuta.
Einstein proponeva di immaginarsi una fessura orizzontale solcata su una tavola
e sorretta da una molla. Dietro alla tavola ne metteva un’altra con due
fessure. Poi chiedeva di immaginarsi uno strumento in grado di sparare una
particella attraverso la fessura. Lo scopo era capire da quale delle due
fessure passava la particella, per comprendere la traiettoria della stessa, e
donandole, di conseguenza, un carattere oggettivo. Per fare questo, però,
bisognava capire, in qualche modo, quale delle due fessure sarebbe stata
attraversata dalla particella, dato che la probabilità erano del 50 %. Einstein supponeva che ogni volta che una
particella attraversava la fessura, per la legge della conservazione del moto,
cede parte della sua quantità di moto alla parte della tavola opposta alla sua
direzione. Quindi se la particella va verso l’alto, spingerà la tavola verso il
basso e viceversa. Inoltre, se si mette uno schermo dietro alle due fessure, si
noteranno delle figure di interferenza che permetteranno di capire la
traiettoria della particella. In questo modo il principio di indeterminazione e
l’interpretazione di Copenaghen sarebbero crollate. Se pensate, dunque, che
Einstein avesse messo Bohr nel sacco, vi sbagliate, perché il fisico danese
trovò una soluzione. Egli si rese conto che per misurare la variazione di moto
della prima tavola, sarebbe stato necessario dotare lo strumento di una scala.
Per misurare la variazione di scala, inoltre, sarebbe stato necessario misurare
la scala stessa, attraverso l’illuminazione. Così facendo, però, la quantità di
moto trasferita allo strumento sarebbe stata diversa, in virtù del fatto che
per illuminare lo strumento dovrei trasferirli dei fotoni, che come sappiamo
sono dotati di una certa quantità di
moto.
L’esperimento delle due
fessure
L’esperimento precedentemente proposto da Einstein è il famoso
esperimento delle due fessure, ma
l’implicazione appena descritta non è la sola. Questa volta è
l’interferenza ad essere l’oggetto della discussione. Se, infatti, facciamo
passare un elettrone alla volta dalle due fessure, si formerà un’immagine di
interferenza sullo schermo posto dietro. Mentre se si fa passare un elettrone alla volta, da una sola
fessura, non si crea nessun fenomeno di interferenza. Un elettrone come
sappiamo può passare da una sola fessura, quindi, in entrambi i casi sullo
schermo si dovrebbe osservare lo stesso fenomeno, ma non è così. Nel primo caso
è come se l’elettrone interferisse con se stesso, ma per fare questo dovrebbe
passare da entrambe le fessure e qui entra in gioco la dualità onda particella.
Se dalle fessure ci passa una sola onda, è possibile che si crei interferenza,
mentre se ci passa una particella no. Il che, secondo Bohr, dava adito alla sua
interpretazione. Secondo il fisico, infatti, l’elettrone non ha traiettoria, e
quindi passa da entrambe le fessure interferendo con se stesso, e comportandosi
come un’onda. Mentre se si osserva da quale fessura passa, il solo atto di osservare
dona una realtà fisica all’elettrone, che non interferirà più con se stesso.
Ciò è dovuto al fatto che per osservare l’elettrone dobbiamo illuminarlo con un
fotone, il che gli dona la caratteristica di particella. In pratica se non si
osserva da quale fenditura passa l’elettrone, si creerà l’interferenza, poiché
esso si comporterà come un’onda. Mentre se si osserva la sua direzione, esso,
acquisterà la natura di particella e non interferirà con se stesso. In
definitiva è l’esperimento stesso che determina la natura dell’elettrone.
La scatola di luce di
Einstein
A questo punto la sfida tra Einstein e Bohr sembrava essersi
conclusa in favore di Bohr, ma Einstein aveva ancora un asso nella manica: la
scatola di luce. Un giorno, nel 1930, i due fisici si ritrovarono e Einstein
propose un nuovo esperimento mentale a Bohr: ammettiamo di avere una scatola
piena di luce ( e quindi al suo interno ci saranno un numero finito di fotoni).
La scatola deve essere appesa ad una molla per essere pesata prima e dopo
l’esperimento. All’interno della scatola mettiamo un orologio collegato ad un
otturatore e sincronizzato con un
secondo orologio in laboratorio. In un determinato momento l’orologio deve far
aprire l’otturatore che deve far uscire un solo fotone. In questo modo si
conosce il momento preciso in cui il fotone esce dalla scatola. Inoltre, avendo
precedentemente pesato la scatola, si conosce perfettamente la massa
dell’elettrone. In questo modo sono chiari velocità e massa dell’elettrone, in
contrasto con il principio di indeterminazione e con l’interpretazione di
Copenaghen. Bohr in quel momento si sentì sconfitto, ma non si arrese. Dopo
lunghe riflessioni arrivò alla soluzione del problema. Il fisico sosteneva che
l’orologio doveva essere sincronizzato con quello in laboratorio, altrimenti
per osservare l’altro, quello dentro la scatola, si modificherebbe lo strumento
stesso. Inoltre gli orologi devono stare alla stessa altezza, in quanto secondo
la teoria della relatività generale, un orologio che si trova su un soffitto,
differisce da quello sul pavimento, per trecento parti su un milione di
miliardi. Ma se la scatola è attaccata
ad una molla, allora nel momento in cui esce il fotone, l’altezza a terra della
scatola sarà diversa, e quindi per effetto della teoria della relatività i due
orologi non sarebbero più sincronizzati. Tutto questo in accordo con il
principio di indeterminazione e con l’interpretazione di Copenaghen. Einstein
si era dunque dimenticato della sua teoria, e per l’ennesima volta era stato
battuto da Bohr.
I due nonostante la grossa competizione in cui erano a capo,
furono grandi amici nella vita e rispettosi l’uno dell’altro. Correva molta
stima tra i due, anche se le loro idee erano così contrastanti. Al giorno
d’oggi non si può dare ragione a l’uno o all’altro con certezza, ma molti
esperimenti danno comunque sempre ragione a Bohr. In particolare esiste un
teorema ideato da John Bell, che dovrebbe chiarire le idee sulla reale
interpretazione della meccanica quantistica, ma di questo ne parleremo in
seguito.
Il paradosso EPR
L’ultimo e più famoso esperimento mentale utilizzato per
definire la meccanica quantistica come incompleta, fu il paradosso ideato da
Einstein, Podolsky e Rosen. L’esperimento consisteva in questo: se io considero
due particelle A e B, le faccio interagire, e poi le spedisco ad anni-luce di
distanza, posso trovare la posizione e la velocità di una delle due particelle
senza perturbarla. In questo caso non si sarebbe soggetti al principio di
indeterminazione di Heisenberg poiché non ci sarebbe interazione con la
particella. Ma come avviene tutto ciò? Allora, abbiamo detto che l’esperimento
consiste nel far interagire due particelle e nel dividerle ad anni luce di distanza.
Dunque nello stesso istante in cui andremo a conoscere la posizione e velocità
della particella A, conosceremo la
posizione e la velocità di B, in quanto entrambe hanno interagito e si sono
unite in entanglement. Questo processo è ancora misterioso, ed è come se ci
fosse uno scambio di informazioni a distanza illimitata, anche a velocità
maggiori di quella della luce. Mi spiego meglio. Il senso è semplice: queste
particelle vengono fatte interagire, perciò sono dotate di spin opposti, per il
principio di esclusione di Pauli. I loro spin, però, si trovano in una
sovrapposizione di stati, in quanto non viene effettuata una osservazione su di
essi; la loro natura, quindi, non è ancora definita. Però, nel momento in cui saranno portate ad
anni luce di distanza, la misurazione effettuata sulla prima particella, automaticamente
renderà evidente lo spin dell’altra. L’altra particella, quindi, non esisterà
più in una sovrapposizione di stati, ma acquisterà uno spin reale. Il problema
però è questo: chi dice alla seconda particella che la prima è stata osservata?
È come se ci fosse uno scambio di informazioni che viaggia a velocità maggiori
di quella della luce. Ciò, però, è in disaccordo con la teoria della
relatività, la quale nega quel tipo di velocità. Bohr controbatté affermando,
che se si fanno interagire due particelle, esse fanno parte del solito sistema,
quindi è indifferente se le allontano oppure no, ci dovrà essere comunque un
osservazione su una delle due particelle, in accordo con il principio di
indeterminazione.
Il teorema di Bell
La fisica classica ha sempre affermato che conoscendo le
proprietà di un corpo in un determinato momento, è possibile conoscerne le sue
proprietà in un momento futuro. Nel senso che se io lancio una pallina ad una
certa velocità, in una determinata direzione e con una certa forza, potrò
conoscere dove andrà a cadere. La meccanica quantistica afferma che nel mondo
dei quanti questo non avviene a causa del principio di indeterminazione. Il
paradosso EPR voleva in qualche modo dimostrare che alla meccanica quantistica
mancava qualcosa, che non era completa. Einstein, Podolsky e Rosen volevano
dimostrare la necessaria esistenza delle variabili nascoste, che dovrebbero
rendere completa la teoria. Attraverso queste variabili sconosciute si dovrebbe
dare una natura determinata anche alle particelle, si dovrebbe quindi sapere
dove andrà a cadere la pallina. Bohr e molti altri, invece, sostenevano che la
natura indeterminata delle particelle è parte integrante della realtà. Non sono
le nostre menti a non concepire altre leggi fisiche sconosciute, ma
l’indeterminazione è intrinseca nella realtà. L’indeterminazione è un elemento
della natura, non se ne può fare a meno.
Molti anni dopo la morte di Bohr e Einstein, un matematico
irlandese sviluppò un teorema per capire chi avesse ragione: il teorema di
Bell. Nel 1967 Bel formulò le sue disuguaglianze che gli permettevano di
verificare o meno l’esistenza delle variabili nascoste. Attraverso la verifica
fatta su coppie di particelle entanglement, i risultati dimostravano che le disuguaglianze
di Bell non erano rispettate, il che implicava che non dovessero esistere altre
variabili nascoste. Così cadde la realtà oggettiva di Einstein e vinse ancora
una volta l’interpretazione di Copenaghen. Ad oggi i risultati dimostrano che
le variabili nascoste non esistono e che la realtà oggettiva di Einstein è meno
probabile dell’interpretazione di Copenaghen.
Esistono molte altre interpretazioni della fisica quantistica
e ancora la scienza non può conoscere con esattezza quale sia quella giusta.
Naturalmente la natura indeterminata delle particelle è un dato di fatto, ma
anche il fatto che la terra fosse piatta
era certo, prima che Galileo dimostrasse il contrario.
Altre interpretazioni
della meccanica quantistica
Abbiamo precedentemente compreso che esistono diverse
interpretazioni della meccanica quantistica, e in particolare, abbiamo parlato
dell’interpretazione di Copenaghen e della realtà oggettiva di Einstein. Queste
due interpretazioni sono state oggetto di maggiore discussione, in quanto si
trovano agli opposti, e descrivono quindi un’idea generale dell’ampiezza
dell’argomento. Adesso è arrivato il momento di parlare delle altre
interpretazioni, ma non è fondamentale descriverle tutte, perciò mi soffermerò
sulle più curiose. La prima di cui voglio parlare è l’interpretazione a molti
mondi. Essa eviterebbe il collasso della funzione d’onda. In pratica l’interpretazione
afferma che ogni possibile stato del sistema diventa reale, e quindi, per
esempio, nel caso della sovrapposizione dello spin, si formerebbe un mondo in
cui lo spin è su, e uno in cui lo spin della stessa particella è giù. Da ciò si
deduce che ogni possibile configurazione dell’universo diventi reale, e quindi,
che in ogni istante si formino molti mondi diversi. In pratica dovrebbe
esistere un multiverso in cui molti noi si comporterebbero in tutti i modi
possibili. L’altra interpretazione è detta onda-pilota ed è stata formulata da
Bohm sull’idea di de Broglie, secondo cui l’onda, come nel caso delle onde
sonore, è solo il mezzo che trasporta la particella. Diciamo che come un
surfista cavalca le onde dell’oceano, le particelle, secondo questa teoria,
dovrebbero cavalcare le onde quantistiche.
Onde, particelle e
probabilità
Riassumendo la meccanica quantistica potremmo dire che ad ogni
particella è associata un’onda di probabilità, la cui natura non è puramente
matematica: essa esiste sottoforma di quantità inosservabile. Ovvero non è
possibile osservare l’onda vera e propria, ma essa ha effetti reali, perciò è
una quantità intrinseca della natura. Il fatto, inoltre, che l’onda descriva
tutte le possibilità che una particella si trovi in una determinata posizione
in un determinato momento, la rende una quantità estremamente inosservabile. È come
se una definizione puramente probabilistica avesse effetti reali sulla natura.
Possiamo dire, quindi, che le particelle come l’elettrone, si trovano in una
situazione indeterminata, miscelati in molti strati all’interno di un sistema.
Un elettrone lasciato a se stesso, e quindi non osservato, non esiste qui o lì,
ma esiste in ogni luogo a seconda delle probabilità. Bene, in quel momento
l’elettrone è un’onda, e in quanto tale ha la facoltà di interferire con se
stesso al momento del passaggio da due fessure. Solo nel momento in cui si
effettua l’osservazione, la sua natura diventa corpuscolare. E ciò avviene in
seguito al collasso della funzione d’onda. L’elettrone che prima esisteva
miscelato in vari stati, sottoforma di probabilità, ora acquista una natura
determinata di particella: è qui o li. Tutto questo sempre entro i limiti
permessi dal principio di indeterminazione, il quale, definisce un limite di
osservabilità all’elettrone anche in forma corpuscolare. Questi limiti dettati
dal principio, sono il confine di determinazione che rende la dualità onda
particella, una natura fisica.
Sovrapposizione degli
strati
La meccanica quantistica fonda la sua esistenza sulla
sovrapposizione degli stati. Ma cosa sono gli stati? Come abbiamo detto nel
paragrafo dedicato al principio di esclusione di Pauli, ogni particella ha un
determinato stato quantico. Uno stato quantico è definito da alcuni valori,
come lo spin, la forma dell’orbita, etc. Ognuna di queste proprietà ha diversi
gradi di libertà (come il su e giù, nel caso dello spin). Quindi nel momento in
cui si compie l’osservazione di una particella, automaticamente si conosceranno
le sue proprietà, ad esempio: tale elettrone ha tale spin, determinata
posizione nello spazio, energia tot,
etc. Quindi un elettrone osservato, presenta uno stato quantico ben definito.
Ma come abbiamo ripetuto più volte, un sistema quantistico che non è sottoposto
ad osservazione, si comporta in maniera ondulatoria. In particolare una
particella che non interagisce con un'altra, come un fotone con un elettrone,
si comporta come un onda. L’onda, come abbiamo già detto, è una quantità
inosservabile che descrive le ampiezze di probabilità che i vari stati di una
particella possono avere. Al momento dell’interazione del fotone con l’elettrone
( è solo un esempio), avviene il collasso della funzione d’onda e la particella
acquista natura determinata, diventano tale. Ma quando l’elettrone o qualsiasi
altra particella sono onde, quali sono le loro proprietà? Dove si torva la
particella? Qui o li? Con spin giù o su? Quanta energia possiede? Bene, i vari
stati della particella si trovano miscelati e quindi sovrapposti. Quindi la
particella si trova in tutti i luoghi e in tutte le maniere. Solo dopo il
collasso della sua funzione d’onda la sua natura diventa determinata. La
sovrapposizione degli strati è una condizione nella quale di trova la
particella prima di essere osservata. Come il gatto di Schrödinger, che prima di essere
osservato è sia vivo, sia morto.
Uno sguardo che cambia l’Universo