Meccanica quantistica

L'universo comincia a sembrare più simile ad un grande pensiero che non a una grande macchina.
James Jeans, astronomo e fisico.





Il rivoluzionario riluttante



Il lungo percorso che ha portato alla costruzione della meccanica quantistica iniziò con la più famosa scoperta di Planck: l’energia è divisa in quanti.

A fine ottocento, inizio novecento due grandi teorie avevano riscosso molto successo: la teoria dell’elettromagnetismo di Maxwell e la termodinamica. Entrambe le teorie si trovavano in difficoltà nello spiegare il fenomeno della radiazione del corpo nero. Questo corpo  ha l’aggettivo nero, poiché si comporta come l’omonimo colore: assorbe tutta la radiazione elettromagnetica; è ciò avviene in virtù del fatto che è  un corpo con una cavità. Quando la radiazione entra nella cavità, viene assorbita dalla parete nella quale si scontra, ma nonostante una parte venga riflessa, la radiazione  si scontrerà con un’altra parete, fino a quando sarà completamente assorbita. Ma la cosa importante da capire sul corpo nero, è che esso viene preso come riferimento per la rappresentazione di un corpo ideale, il quale, assorbendo tutta la radiazione, è anche capace di emetterla completamente. Secondo le teorie di quel tempo, un sistema doveva emettere radiazione elettromagnetica in funzione della sua temperatura. Quindi un corpo caldo, secondo la fisica del tempo, emetteva molta radiazione elettromagnetica, mentre un corpo freddo emetteva comunque radiazione, ma in pochissime quantità. Inoltre, i fisici, avevano scoperto che la temperatura era determinata dalla vibrazione delle molecole del materiale. Questa vibrazione doveva emettere radiazione con una frequenza proporzionale alla vibrazione stessa. Il problema, dunque, derivava dal fatto che queste frequenze potevano essere emesse in qualsiasi quantità, anche a livelli infinitamente piccoli. Naturalmente la radiazione non aveva un energia infinita (l’energia della radiazione è proporzionale alla frequenza, quindi a frequenza alte l’energia sarà alta, mentre a frequenza basse l’energia sarà debole), dunque qualcosa andava cambiato. A questo punto arrivò il fisico Max Planck, il quale propose che l’energia venisse emessa e assorbita in quantità discrete: i quanti. La frequenza, quindi, poteva avere solo determinate quantità. Ma andiamo per gradi.

Abbiamo detto che a quei tempi si credeva che l’energia fosse trasportata dalla radiazione elettromagnetica, che, come sappiamo, è un’onda, perciò la sua natura implica che sia un continuo. Per capire cosa sia un continuo, basta immaginarsi di salire una strada, in questo caso è possibile percorrere passi lunghi o corti, a seconda di come preferite. Planck, quindi, scoprì che la natura dell’energia era divisa in pacchetti. Ovvero l’energia non era emessa e assorbita in quantità indefinite (passi lunghi o corti), ma era divisa in pacchetti multipli di una costante, come i gradini di una scala. L’energia, quindi, dovrebbe essere calcolata in multipli della costante di Planck e perciò potrà essere: 2h 3h 4h 5h..dove h è la costante. In questo modo, il fisico, arrivò a definire la formula E=hf, la quale, implica, che l’energia della radiazione elettromagnetica fosse data da h, ovvero la costante di Planck, per f, la frequenza della radiazione elettromagnetica. Facendola semplice la frequenza determina l’energia, ed essendo moltiplicata per una costante, acquista la capacità di potere avere solo delle quantità discrete, i quanti. Il problema di Planck fu che per tutta la vita rifiutò la sua scoperta, o meglio credeva che l’energia fosse divisa in quanti, solo al momento dello scambio con la materia, e che negli altri momenti fosse soltanto radiazione elettromagnetica. Fu Albert Einstein a scrivere il primo articolo sul quanto, come entità di cui è composta la luce. Einstein aveva scoperto che l’energia di un quanto di luce gialla era calcolata moltiplicando la costante di Planck, per la frequenza della luce gialla. Nessuno a quei tempi, però, credette alla teoria di Einstein. Così, il fisico, tentò di dare credibilità alle sue ipotesi, cercando di spiegare un fenomeno che era sottoposto a molti studi all’epoca. Nel 1887 Hertz aveva osservato per la prima volta l’effetto fotoelettrico: quando un metallo viene colpito da radiazione elettromagnetica (e quindi da fotoni) la superficie emette degli elettroni. Secondo Einstein, il numero di elettroni estratti, dipende dall’energia del fotone, che è proporzionale alla frequenza dell’onda luminosa. Di conseguenza all’aumentare dell’intensità del fascio luminoso, aumenta il numero di elettroni emessi. Ciò nonostante, la sua scoperta, non bastò a rendere credibile la sua teoria, in quanto tutti erano ancora convinti che la luce fosse quantizzata solo durante l’incontro con la materia.

Oggi sappiamo che Einstein aveva ragione, e che i famosi quanti della radiazione elettromagnetica sono i fotoni, particelle di luce, i quali hanno una doppia natura: ondulatoria e corpuscolare. Sono onde e particelle, come del resto tutte le particelle. Ma di questo ne parleremo dopo. Naturalmente quello che oggi è chiaro, è che i fotoni, essendo quantità ben definite, danno un carattere discreto alle onde, le quali possono vibrare solo con frequenze che permettono la quantizzazione della radiazione. Inoltre a permettere alla radiazione di essere emessa, ci pensano gli elettroni, che passando da uno stato ad un altro, emettono un fotone, in virtù di una perdita di energia pari a quella  emessa sottoforma di fotone, e quindi di radiazione elettromagnetica (ciò è dovuto alla legge sulla conservazione di energia, la quale afferma che l’energia di un sistema rimane costante). Quindi l’elettrone che perde energia, passando ad uno stato meno energetico, deve rendere conto di questo difetto ed emettere un fotone, per far quadrare i conti. 



Dibattiti sulla natura corpuscolare o ondulatoria della luce



Fin dai tempi di Newton, il quale introdusse il concetto di corpuscolo, il dibattito sulla natura della luce è aperto. Newton spiegava molti fenomeni da lui osservati, attraverso la definizione della luce come un fascio di particelle. Questa idea era in contrasto con quella di Huyges, il quale era convinto che la natura della luce fosse ondulatoria. A mettere chiarezza su questo dibattito, venne Thomas Young, quando osservò per la prima volta l’interferenza della luce. Anch’esso era convinto che la luce fosse un onda, e mise appunto un esperimento per dimostrarlo. Egli fece passare un fascio di luce da due fessure parallele, osservando delle interferenze nel pannello posizionato dietro. Questo effetto implicava che la luce fosse un onda, poiché si comportava come le onde generate dal lancio di un sasso in uno stagno. Le onde generate, infatti, finiranno per incontrarsi, e al momento dello scontro potranno succedere due cose: due onde uguali si sommeranno, e la loro ampiezza raddoppierà; oppure due onde opposte si andranno a sottrarre, e scompariranno. Analogamente, quello che succede nello stagno, è stato osservato da Young nel pannello. Questa scoperta definì la natura ondulatoria della luce, fino a quando tutto fu sconvolto dalla scoperta di Planck.



Il problema della teoria dei quanti



Attraverso la scoperta dell’elettromagnetismo, Maxwell, scoprì che le onde elettromagnetiche viaggiano alla velocità della luce. Secondo la sua deduzione, quindi, la luce era un fenomeno di radiazione elettromagnetica. Einstein che nacque proprio quando morì Maxwell, ideò la sua teoria dei quanti proprio sulle basi dell’elettromagnetismo. Infatti, secondo il fisico, l’energia di un quanto era calcolata dalla frequenza della radiazione, che è un fenomeno elettromagnetico. Il problema della teoria dei quanti, però, era determinato dal fatto che non tutti credevano nell’esistenza dell’atomo. La soluzione a questo problema venne dal moto browniano: se si mettono dei granelli di polvere sulla superficie dell’acqua, si può notare che essi iniziano a muoversi a zig zag. Il loro moto, però, può essere spiegato solo dalla presenza di atomi. Infatti attraverso le collisioni atomiche, i granelli si metterebbero in moto, determinando i loro spostamenti a zig zag; ma questo non era tutto. Einstein si rese conto che se le collisioni atomiche tra l’acqua e i granelli, avvenissero da tutte le direzioni, i granelli rimarrebbero fermi. Il fisico, dunque, arrivò alla conclusione che gli atomi si dovrebbero unire ai granelli, in gruppi. Attraverso questo ragionamento, quindi, riuscì non solo a dimostrare l’esistenza degli atomi, ma ne definì pure la dimensione. La seconda scoperta sugli atomi, del fisico, fu che essi, quando sono riscaldati, possono oscillare solo a determinate frequenze, multiple di una frequenza base. Fu così che scoprì che gli atomi assorbono ed emettono energia in forma quantizzata.



L’atomo di Rutherford



A questo punto venne il turno di Rutherford. Egli scoprì che la radioattività è la trasmutazione di un elemento in un altro, attraverso l’emissione di radiazione; lo stesso identico processo avviene dentro le stelle, quando l’idrogeno si trasforma in elio, attraverso la fusione termonucleare. La radiazione provocata da questo processo è anche la luce con cui il Sole ci illumina ogni giorno. A quei tempi, Rutherford, aveva inoltre iniziato a fare esperimenti con i raggi α, sparandoli contro un foglio d’oro. Così facendo, il fisico, si rese conto che una piccolissima parte dei raggi che sparava, si scontrava e tornava in dietro; mentre buona parte passava attraverso il foglio. In seguito a questa scoperta disse: “era come cercare di sparare un moscerino nella Albert Hill di notte”. Questa scoperta cambiò radicalmente la concezione che si aveva, a quei tempi, dell’atomo. Infatti, fino a quel momento,  l’atomo era stato immaginato come una palla piena di elettroni. Rutherford, con la sua scoperta, dimostrò dunque, che esso è composto da un nucleo interno, intorno al quale ruotano gli elettroni. Ma, ancora più incredibilmente, scoprì che l’atomo è per la maggior parte vuoto, infatti se il nucleo fosse grande come una mela, gli elettroni gli ruoterebbero a 2 km di distanza. L’unica pecca del suo modello atomico, era che stando alle teorie classiche, l’elettrone avrebbe dovuto compiere un movimento a spirale intorno al nucleo, fino a finirci dentro. E ciò avrebbe dovuto avvenire in  s!



Il modello atomico di Bohr



Bohr, che era un grande ammiratore di Rutherford, arrivò alla soluzione di questo problema. Come un bravissimo investigatore iniziò a cercare indizi, e via via mise a posto tutti i tasselli del puzzle. Il risultato fu che l’elettrone poteva ruotare solo in stati stazionari, acquisendo stabilità. In pratica un elettrone rimane per un certo periodo di tempo in uno stato stazionario, in seguito compie un salto quantico, e così continua fino a che arriva allo stato fondamentale, in cui non ha più sufficiente energia per permettersi di irradiarla. Bohr, in questo modo, aveva introdotto per la prima volta l’idea che gli elettroni ruotassero intorno al nucleo in precise orbite, e che i salti quantici erano salti che l’elettrone compiva al momento in cui scivolava in uno stato diverso.  Il secondo grande passo compiuto da Bohr fu capire che l’atomo è quantizzato. Ma a permettergli di fare questa scoperta, fu un’altra scoperta fatta nello stesso periodo da Nicholson. Nicholson, a quei tempi, aveva stabilito che l’elettrone era dotato di momento angolare. Il momento angolare si trova moltiplicando la massa, per la velocità, per il raggio, ed è la misura dell’impeto del movimento rotazionale. Anche il momento angolare è quantizzato, ed equivale a H/2 dove H è la costante di Planck. Nicholson aveva dimostrato che il momento angolare poteva valere solo per 2(H/2), 3(H/2), 4(H/2 etc, in quanto è quantizzato e si trova per multipli di se stesso. A questo punto, Bohr, si rese conto che erano permesse solo quelle orbite, il cui momento angolare era un numero intero n, moltiplicato per H e diviso per 2. Grazie a questo, Bohr, dimostrò i sui stati stazionari. Ma per completare il suo modello, il fisico, scoprì anche che un elettrone che si trova in n=1, e che riceve abbastanza energia, salta in n=2, e che una volta persa la sua energia torna in n=1. Ogni volta che un elettrone salta di livello, inoltre, emette un quanto di energia pari alla differenza tra i due livelli. Grazie a questa scoperta, Bohr, si rese conto che la radiazione elettromagnetica è emessa dagli atomi, sottoforma di quanti di energia. Il problema in questo caso è che l’elettrone non può stare nello spazio che c’è tra n=1 e n=2, perché non è permesso dal modello. Quindi deve accadere qualcosa di strano, come se l’elettrone, istantaneamente, saltasse da n=1 a n=2. Un ulteriore aggiunta al modello atomico di Bohr, la dette Albert Einstein. Secondo il modello non ancora modificato, gli elettroni potevano spostarsi nelle orbite in due modi: il primo modo, era l’emissione spontanea, e avveniva con il salto di un elettrone da uno stato all’altro, determinando l’emissione di un quanto di luce. Il secondo caso avveniva con l’assorbimento di un quanto di luce, da parte dell’elettrone. Ciò comportava, inoltre, lo spostamento dell’elettrone ad uno stato inferiore. L’aggiunta di Einstein riguardava un terzo modo in cui gli elettroni potevano spostarsi nelle orbite. Il caso introdotto dal fisico si chiama emissione stimolata, e avviene quando un quanto di luce colpisce un elettrone in un atomo già in stato eccitato. In questo caso l’elettrone non assorbe il quanto, ma lo respinge; inoltre viene stimolato a salire di livello, comportando  a sua volta l’emissione di un altro quanto di luce. Questa scoperta è stata di fondamentale importanza, poiché sta alla base dei laser, che, come sapete, trovano applicazioni in un gran numero di attività (dalla medicina, ai computer, ai tagli industriali, ecc.)

A concludere il modello atomico di Bohr ci pensò Sommerfeld. Egli scoprì che le orbite degli elettroni possono essere anche ellittiche, e che ogni atomo ha diverse possibilità di configurazione. Inoltre scoprì che gli elettroni, come i pianeti, sono soggetti a relatività, per questo, quando l’elettrone si trova più vicino al nucleo, aumenta la sua velocità e di conseguenza la sua massa.



L’introduzione della probabilità



L’idea di Bhor sugli stati stazionari era impeccabile. Però sorgeva un nuovo problema: Rutherdford si domandò come un elettrone che si trova in uno stato eccitato, possa sapere dove andrà a cadere, e soprattutto come fa a sapere quando saltare. Per avere risposta a questa domanda, Rutherdford, dovette aspettare 12 anni, quando il fisico Born dette la risposta. La teoria dei quanti non poteva prevedere quando e come l’elettrone doveva saltare da uno stato all’altro, ma poteva calcolare solo una probabilità che questo accadesse in un certo modo. Quello che è importante capire, però, è che questa probabilità non è la stessa probabilità che conosciamo noi, ovvero quella classica del lancio della moneta. Tutte le probabilità a noi comuni derivano da una mancanza di informazioni:  se potessimo conoscere la velocità, l’angolo di rotazione e altri parametri, potremo conoscere con esattezza il risultato del lancio della moneta. Nel micro mondo la probabilità non è di questo tipo, ma è una probabilità fondamentale. Ovvero non è dettata dalla mancanza di informazioni, ma è intrinseca nel sistema. Anche se conoscessimo tutte le informazioni necessarie sull’elettrone, esso potrebbe saltare da uno stato all’altro sempre secondo probabilità, non potremo prevedere quando e dove. La stessa probabilità fondamentale vale anche per il decadimento radioattivo, infatti non è possibile conoscere il momento in cui un atomo decadrà, né se la particella che emetterà sarà alfa o beta. In seguito a tutte queste innovazioni la teoria dei quanti stava prendendo forma, ma molte sono ancora le scoperte per arrivare ad una teoria completa. La più importante di quei tempi fu quella fatta da Albert Einstein: egli scoprì che i quanti di luce sono una grandezza vettoriale e quindi dotati di direzione. Ma la cosa straordinaria è che la transizione spontanea e la direzione del quanto di luce sono del tutto casuali. Ovvero non si può, conoscendo le condizioni iniziali, costruire un modello che riproduca con esattezza quello che accade all’interno dell’atomo. Il tutto è opera del caso, non si possono fare predizioni. L’unica cosa che si può fare è calcolare delle probabilità che accada in un certo modo, ma non si può prevedere niente con esattezza. Ad esempio nel caso della transizione, l’elettrone cade nel livello più fondamentale, in un atomo eccitato, ma il momento della transizione rimane dettato dal caso. L’unica cosa che possiamo sapere è che ci sarà una grossa probabilità che cada molto presto, ma c’è comunque una piccola probabilità che ci metta molto tempo per cadere. La cosa interessante è che quando si parla di probabilità a livello atomico le cose si fanno contro intuitive. Quando abbiamo parlato del decadimento alfa, abbiamo detto che una particella alfa, per oltrepassare la barriera coulombiana ci può mettere anche milioni di anni, perché si deve presentare l’effetto tunnel. Ma quando si parla di atomi bisogna considerare che in un centimetro cubo ci sono circa  atomi. Quindi 200 000 000 000 000 000 000 000 atomi. Per questo conosciamo l’effetto tunnel. Non è che gli scienziati si mettono ad osservare un atomo e dopo qualche milione di anni osservano il risultato previsto. Quando si parla di cifre cosi grosse è naturale che un evento rarissimo per il singolo, accada molto spesso per il gruppo.



La conferma della teoria dei quanti



Nel 1923 Compton, quasi per caso, ed in seguito ad alcuni esperimenti sui raggi x, trovò la conferma della teoria dei quanti. Il suo esperimento consisteva nello sparare raggi x contro degli elementi come il carbonio. Il suo esperimento, inoltre, era volto ad osservare, se e come, avveniva una variazione della lunghezza d’onda dei raggi deviati dal materiale. In pratica quando sparava i raggi x contro il carbonio, parte dei raggi veniva diffusa a vari angoli, dunque, il suo scopo, era quello di determinare se questi raggi diffusi fossero in qualche modo diversi da quelli incidenti. Il risultato dell’esperimento confermò l’idea che i raggi diffusi avessero lunghezza d’onda differente da quella dei raggi incidenti. Inoltre, il fisico, si rese conto che i raggi deviati acquistavano sempre una lunghezza d’onda maggiore di quella dei raggi che colpivano il carbonio. Sarebbe come sparare un raggio di luce blu verso l’elemento e vedere deviare luce rossa. La teoria elettromagnetica di Maxwell e quindi quella ondulatoria, non ammetteva, però, questi risultati; perciò la spiegazione doveva stare nei quanti di luce di Einstein. Fu così che Compton si rese conto che i quanti di luce spiegavano perfettamente quello che accadeva: se un quanto di luce si scontra con un elettrone, cede ad esso parte dell’energia e viene deviato, ma solo dopo che questa energia viene ceduta all’elettrone che subisce il rinculo. A questo punto secondo semplici formule riuscì a comprendere che in questo caso la lunghezza d’onda sarebbe variata.

Ora venne il bello. L’intera comunità scientifica sapeva che la teoria ondulatoria della luce poteva benissimo descrivere i fenomeni, come l’interferenza e la diffrazione. Altresì la variazione di lunghezza d’onda da parte dei raggi x, poteva essere spiegata solo considerando la luce come divisa in pacchetti, i quanti. Ma allora la luce, si chiesero tutti, è un’onda o una particella?



La dualità onda-particella



È ormai evidente che la luce sia solita comportarsi sia come un’onda, che come una particella. Ma a sconvolgere ancora di più lo stato d’animo degli scienziati di tutto il mondo, ci pensò il principe Louis De Broglie. Egli era già da tempo convinto che la natura corpuscolare e quella ondulatoria della luce, avessero lo stesso valore. Ma la sua intuizione fu incredibile, nonostante in lui, l’idea della dualità fosse già avanzata. Egli si chiese: se la luce si comporta sia come un’onda che come una particella, perché anche un elettrone non si può comportare nello stesso modo? La risposta fu affermativa, nel senso che anche gli elettroni si comportano in entrambi i modi. Infatti, se ad un elettrone si associa un’onda, si può determinare la sua posizione all’interno dell’atomo; altresì se si considera l’elettrone come un’onda, esso non ha più motivo per collassarsi nel nucleo: viene dunque svelato un altro mistero. Nonostante, comunque, questa scoperta sia avvenuta a carico del principe Louis De Broglie, la dualità onda-particella venne dimostrata nel 1937 da George Thomson e Davisson, i quali si presero il premio Nobel.

Se l’elettrone è sia un onda che una particella, allora qualsiasi cosa composta da elettroni, è sia un’onda che una particella. Quindi tutta la materia che osserviamo nel mondo ha una doppia natura; noi stessi abbiamo una doppia natura. Esperimenti recenti dimostrano, inoltre, che il fenomeno della dualità vale sia per fotoni che per elettroni, ma anche per atomi e persino per le molecole di fullerene (formate da sessanta atomi). Al momento si stanno progettando esperimenti con oggetti molto più grandi come i virus; dunque, in linea di principio, nulla vieta che anche una persona possa interferire con se stessa.



La scoperta dello spin



Nel 1922 tutti i fisici del palcoscenico europeo, erano impegnati alla ricerca della soluzione all’effetto Zeeman anomalo. Questo effetto si presenta quando si sottopongono gli atomi a forti campi magnetici. Gli spettri atomici prodotti, presentano delle righe spettrali scisse in varie componenti. Secondo l’effetto Zeeman normale, le righe si possono scindere in un doppietto o un tripletto. La spiegazione a tale effetto era già stata proposta da Sommerfield, il quale introdusse delle regole per i salti orbitali degli elettroni. In pratica i salti producevano delle righe spettrali scisse i doppiette o triplette. Sommerfield aveva dunque assegnato 3 numeri quantici all’elettrone:

N= dimensione dell’orbita

K= forma dell’orbita

M= direzione di orientamento dell’elettrone

Ma il vero problema restava l’effetto Zeeman anomalo, ovvero la scissione delle righe spettrali in quadriplette.

Pauli si rese conto che la soluzione a questo problema, probabilmente, risiedeva nel modello atomico di Bohr. Secondo le regole di questo modello atomico, niente impedisce agli elettroni di oscillare tutti al solito livello energetico. La sua intuizione, quindi, fu di assegnare un quarto numero quantico all’elettrone, in modo da permettere agli elettroni di ruotare solo in orbite stabilite; e a questo numero fu attribuito l’appellativo di binario, in quanto poteva assumere solo due valori. Con il quarto valore introdotto, Pauli, formulò il suo principio di esclusione, secondo cui due elettroni non possono avere i quattro valori uguali. Ma nessuno, nemmeno Pauli stesso, conosceva la vera natura del quarto numero quantico. Il fattore positivo, però, era che il quarto numero permetteva di spiegare l’effetto Zeeman anomalo, in quanto aumentava il numero possibile di stati quantici. Nel frattempo gli scienziati Goudsmit e Uhcenbeck iniziarono a riflettere sulla natura del quarto numero quantico. La loro riflessione partì dal fatto che ogni numero quantico definisce un grado di libertà, ovvero la possibilità di muoversi in alto o in basso, a destra o a sinistra, in su o in giù, avanti o in dietro. Da qui ipotizzarono che anche il quarto numero quantico doveva avere un grado di libertà, e quindi doveva avere un carattere fisico di movimento. L’unico possibile movimento che un elettrone poteva fare oltre a quelli conosciuti, era la rotazione. Naturalmente, come tutto ormai all’interno dell’atomo è quantizzato, anche la rotazione dell’elettrone deve esserlo, e quindi doveva poter assumere solo due valori: su e giù, ovvero, senso orario o antiorario. (l’elettrone i grazie a questa rotazione produce campo magnetico.) I fisici attribuirono a questa  rotazione l’appellativo di spin. Questa scoperta fece cadere la possibilità di potersi immaginare quello che avviene all’interno dell’atomo in termini classici. Lo spin è il limite di pensiero che divide il macro mondo dal micro mondo. Per quanto cerchiate di immaginarvi lo spin dell’elettrone, sappiate che non lo capirete mai. Non siete sicuri? Riflettete allora su questo esempio Considerate la terra come fosse una particella. Supponiamo di essere sulla luna e di osservare in un determinato momento l'Europa. La Terra per tornare alla configurazione in cui noi la vediamo, deve ruotare di 360 gradi, e noi poniamo che questo corrisponda ha spin 1. Una particella con spin 2 per tornare alla configurazione di osservazione, deve ruotare di 180 gradi. Mentre le particelle di spin ½ devono compiere due rotazioni di 360 gradi per tornate alla loro configurazione iniziale. Assurdo vero?



Verso la meccanica quantistica



A questo punto entrò in gioco il giovane Werner Heisenberg, l’ideatore del famoso principio di indeterminazione. Ma prima di arrivare a questa grande scoperta, il percorso da lui intrapreso fu molto lungo. Inizialmente la sua grande intuizione fu di cominciare a pensare all’atomo come qualcosa di completamente diverso dalla natura classica delle cose. L’atomo, secondo lui, non era un entità che ci possiamo immaginare; non è un sistema solare in miniatura. La meccanica quantistica che si stava per formare non poteva essere immaginata come si immagina la meccanica classica, non si può disegnare un atomo. Non lo si può nemmeno riprodurre in un filmato: esso è un entità che si discosta dalla nostra esperienza quotidiana. Prendete  per esempio il salto quantico. Se potessimo avere la fortuna di poter osservare questo evento, non vedremo l’elettrone che compie un salto da uno stato all’altro, ma vedremo un elettrone che prima si trova in uno stato, e subito dopo nell’altro, senza essere passato dalla metà. Heisenberg si mise in testa di capire i salti quantici degli elettroni nell’atomo di idrogeno, e si rese conto di aver scoperto un modo per trovare le frequenze e le transizioni dell’elettrone nel salto quantico. Ma, cosa ancora più importante, aveva capito che queste frequenze e transizioni erano riconducibili alla posizione e alla quantità di moto dell’elettrone. Poi cominciò a fare un’analogia con il sistema solare (solo per convenienza) e si immagino che l’elettrone ruotasse intorno al nucleo, a enormi distanze, come se il nucleo fosse grande come una mela, e l’elettrone ruotasse a due chilometri di distanza. In questo modo la frequenza orbitale dall’elettrone era pari alla frequenza della radiazione che esso stesso emetteva. Attraverso questo stratagemma poteva calcolare la posizione e la quantità di moto dell’elettrone. Rimaneva solo un problema. Nei suoi calcoli non valeva più la proprietà commutativa per la quale A x B è uguale a B x A. Ma la soluzione venne presto da Born, il quale introdusse la matrice nei suoi calcoli; così che la proprietà commutativa non doveva più necessariamente valere.


L’equazione di Schrodinger



Nel 1925 Erwin Schrodinger fece la sua famosa scoperta. Egli lesse la tesi di De Broglie sulla dualità onda particella, e vide che non c’era nessuna equazione che descriveva l’onda. Così la sviluppò lui, in opposizione alla meccanica matricale sviluppata da Heisenberg. In pratica tutto quello che aveva scopeto Heisenberg, descriveva la natura dell’elettrone, come una particella, mentre Schrodinger, la descriveva come un’onda. La differenza tra le due descrizioni, era che l’onda di Schrodinger permetteva di risolvere i problemi molto più facilmente. Ma cos’è che si muove come un’onda? si chiesero i tutti i fisici. Al tempo si sapeva che le onde sonore, per esempio, sono il risultato di un insieme di particelle che si scontrano e si cedono energia potenziale, a diversi intervalli. Ma non si riusciva a capire cos’era l’onda di Schrodinger. Egli credeva che le particelle fossero solo un’illusione, in realtà per lui esistevano solo le onde. Di diversa opinione era Born, il quale sapeva che la funzione d’onda dava per risultato un numero complesso, e quindi qualcosa di non reale, però sapeva anche che il numero complesso da per risultato un numero reale, che può essere associato ad una grandezza fisica reale. A dare credito a Born c’erano le prove schiaccianti degli esperimenti sull’effetto fotoelettrico e sull’effetto Copton. L’idea di Born, quindi, era questa: entrambe le teorie sono vere, ma con una distinzione; l’onda di Schrodinger è solo una descrizione astratta delle probabilità. In pratica, secondo la meccanica classica, se lancio una pallina con una certa intensità, in una certa direzione, potrò sapere dove essa mi andrà a finire. Mentre secondo la meccanica quantistica, l’elettrone ha diverse probabilità di diffusione. Born allora ipotizzò che l’onda avesse a che fare con le probabilità. Nel senso che l’onda doveva essere solo una distribuzione delle probabilità in cui poteva essere diffuso l’elettrone. La funzione d’onda, quindi, doveva comprendere tutte queste probabilità. Al momento della misurazione, infatti, la funzione d’onda collassa, e uno dei possibili stati dell’elettrone diventa reale. Quindi, fino a che non avviene una misurazione, l’elettrone non esiste in nessun luogo, ma in diverse probabilità. Dunque, la funzione d’onda, esiste prima della misurazione, mentre la particella esiste dopo la misurazione. Grazie a questa interpretazione si capì che entrambe le teorie (onda e particella) erano entrambe esatte, se viste sotto l’interpretazione del dualismo onda-particella.



Il gatto di Schrodinger



Per dimostrare che la meccanica quantistica non era completa Schrodinger ideò il paradosso del gatto:

Si rinchiuda un gatto in una scatola d’acciaio insieme con la seguente macchina infernale (che occorre proteggere dalla possibilità d’essere afferrata direttamente dal gatto): in un contatore Geiger si trova una minuscola porzione di sostanza radioattiva, così poca che nel corso di un’ora forse uno dei suoi atomi si disintegra, ma anche in modo parimenti verosimile nessuno; se ciò succede, allora il contatore lo segnala e aziona un relais di un martelletto che rompe una fiala con del cianuro. Dopo avere lasciato indisturbato questo intero sistema per un’ora, si direbbe che il gatto è ancora vivo se nel frattempo nessun atomo si fosse disintegrato. La prima disintegrazione atomica lo avrebbe avvelenato. La funzione Ψ dell’intero sistema porta ad affermare che in essa il gatto vivo e il gatto morto non sono stati puri, ma miscelati con uguale peso.”

Erwin Schrodinger.



In pratica Schrodinger voleva far notare l’assurdità della meccanica quantistica, applicando le sue implicazioni al macromondo. Naturalmente, considerando un gatto invece di una particella, l’effetto è sicuramente maggiore, in quanto risulta assai assurdo pensare che un gatto possa essere sia vivo sia morto. Ormai, però, è  appurato che nella subatomica dell’atomo le cose funzionino proprio così, e per ironia della sorte, il gatto di Schrodinger è diventato il cavallo di battaglia nella descrizione divulgativa della meccanica quantistica. Questo paradosso è nato per screditare la meccanica quantistica ed è finito per esserne una prima descrizione.



Il principio di indeterminazione



Heisenberg, nel 1927, fece la sua più grande scoperta: il principio di indeterminazione. Il giovane fisico si immaginò di osservare un elettrone con un microscopio elettronico, ma si rese conto che in ogni modo cadeva in un guaio. Qualsiasi cosa, infatti, per essere vista deve essere illuminata. Ma nel momento in cui si illumina l’elettrone per vederlo al microscopio, si presentano dei problemi. Infatti, per essere visto bene, un elettrone deve essere illuminato alle frequenze dei raggi gamma, e ciò determina una indeterminazione; seguitemi. Nel momento in cui il fotone che va ad illuminare l’elettrone, si scontra con esso, e, oltre a trasferirgli energia luminosa, gli trasferisce anche parte della sua energia cinetica, modificandone la direzione; proprio come in una partita di biliardo in cui si scontrano due palle. Se però volessi vedere più precisamente l’elettrone, e non la sua direzione deviata, dovrei diminuire la frequenza, rendendone impossibile la visione. Quindi tanto più precisamente misurerò la posizione dell’elettrone, meno capirò la sua velocità, e viceversa. Così che il principio di indeterminazione di Heisenberg dice proprio: non si può conoscere la posizione e la velocità di un elettrone contemporaneamente. Grazie a questo principio, Heisenberg, dette più valore alla sua meccanica matriciale, sostenendo che se velocità e posizione non possono essere misurate contemporaneamente, la proprietà commutativa non deve più essere necessariamente rispettata. Ma Heisenberg andò ancora più a fondo, definendo il principio di indeterminazione come intrinseco nella natura. Non era solo un problema di misurazione, era una questione più profonda; ancorata nella natura stessa. Ogni cosa dunque, secondo il fisico, è soggetta al principio di indeterminazione, poiché anche un semplice sguardo può essere considerato una misurazione, ed in quanto tale, permette al principio di valere ovunque. L’elettrone, quindi, non ha una posizione o una velocità, se non è osservato; esso è definito dall’osservazione. Ma rimaneva ancora una cosa da chiarire: la traiettoria dell’elettrone. Se si osserva un elettrone, infatti, lo si sposta dal luogo dell’osservazione, così che esso, esiste solo nel luogo della misurazione. Se si volesse definirne una traiettoria si dovrebbe compiere una seconda misurazione, ma ancora, solo il luogo della misurazione sarebbe chiaro, così che la traiettoria si potrebbe solo immaginare. L’esistenza stessa della traiettoria dell’elettrone perde quindi di significato, in pratica la traiettoria dell’elettrone non esiste. Tutte queste idee, Heisenberg, le fece presenti a Bohr, il quale gli fece notare che l’indeterminazione poteva essere spiegata dalle onde. Anzi forse il principio di indeterminazione era proprio la chiave per capire la dualità onda-particella; era la linea di confine in cui le due realtà potevano coesistere. Ciò che determina l’esistenza di un’onda o di una particella è l’esperimento che si effettua. L’esperimento stesso determina la natura dell’elettrone. Per esempio l’esperimento di Compton dava ragione alle particelle, mentre l’esperimento di Young dava ragione alle onde.



L’effetto tunnel



Una importante conseguenza del principio di indeterminazione è l’effetto tunnel. Come abbiamo detto esiste una barrira coulombiana all’interno dell’atomo che non permette alle particelle di passare. In realtà nella stragrande maggioranza di casi è così, però ci possono essere delle eccezioni. Secondo la funzione d’onda di Schrodinger, infatti, ci possono essere delle probabilità in cui la particella si trovi oltre la barriera coulombiana. Per farvi capire quanto è assurdo questo fatto, pensate ad un pallone che deve oltrepassare un dislivello. Naturalmente per far arrivare il pallone nel punto desiderato, è necessario imprimergli una certa quantità di energia. Ora, immaginatevi che il pallone si trovi nel punto desiderato, avendo oltrepassato il dislivello, ma senza aver ricevuto l’energia necessaria. Assurdo vero? Beh se volete la prova di questo effetto alzate gli occhi al Sole e guardatelo; se si trova sempre li, significa che l’effetto tunnel esiste, in quanto, altrimenti, il Sole non avrebbe la temperatura necessaria per innescare le reazioni nucleari.  



L’interpretazione di Copenaghen e la realtà oggettiva



Bohr si stava sempre più convincendo delle sue idee. Egli credeva che il principio di indeterminazione di Heisenberg fosse la prova schiacciante della sua verità. Il fisico si era convinto che l’elettrone acquista la sua natura solo dopo l’osservazione; diventa un’onda o una particella solo dopo che viene effettuato l’esperimento. Addirittura, secondo Bohr, l’elettrone che non è misurato non ha posizione né velocità, e nemmeno una traiettoria; l’elettrone che non è misurato non esiste. Solo l’atto dell’osservazione dona realtà all’elettrone. In seguito, dopo la morte di Bohr, venne dato il nome “di Copenaghen” alla sua interpretazione.

Di diverso parere era Albert Einstein, il quale fino al giorno della sua scomparsa, non si convinse mai della teoria di Bohr. Einstein era convinto che ci fosse una realtà oggettiva e stabile, che persiste anche quando non è misurata. L’elettrone non poteva essere un’onda o una particella, doveva avere un carattere oggettivo in base a qualche legge che ancora non si conosceva. Queste ipotetiche leggi ignote erano definite variabili nascoste e in seguito vedremo che è possibile (quasi), attraverso di esse, conoscere la verità sulla reale interpretazione della meccanica quantistica.

In seguito presenterò altre interpretazioni della meccanica quantistica, ma ora rimaniamo su quella di Bohr e quella di Einstein, dato che hanno caratteri opposti, ma su cui si ritrovano molte altre interpretazioni.



La sfida tra Einstein e Bohr



Nel 1926 ci fu un convegno a Solvey in cui si riunirono i più grandi fisici del tempo. La discussione principale era l’interpretazione della meccanica quantistica. Dopo l’intervento di Bohr sulla sua interpretazione, intervenne Einstein proponendo un esperimento mentale. Questo esperimento fu subito controbattuto in maniera efficace da Bohr, ma le cose in seguito si fecero più complicate. Il secondo esperimento mentale proposto da Einstein ebbe molto più effetto, e la risoluzione da parte di Bohr fu molto più riflettuta. Einstein proponeva di immaginarsi una fessura orizzontale solcata su una tavola e sorretta da una molla. Dietro alla tavola ne metteva un’altra con due fessure. Poi chiedeva di immaginarsi uno strumento in grado di sparare una particella attraverso la fessura. Lo scopo era capire da quale delle due fessure passava la particella, per comprendere la traiettoria della stessa, e donandole, di conseguenza, un carattere oggettivo. Per fare questo, però, bisognava capire, in qualche modo, quale delle due fessure sarebbe stata attraversata dalla particella, dato che la probabilità erano del 50 %.  Einstein supponeva che ogni volta che una particella attraversava la fessura, per la legge della conservazione del moto, cede parte della sua quantità di moto alla parte della tavola opposta alla sua direzione. Quindi se la particella va verso l’alto, spingerà la tavola verso il basso e viceversa. Inoltre, se si mette uno schermo dietro alle due fessure, si noteranno delle figure di interferenza che permetteranno di capire la traiettoria della particella. In questo modo il principio di indeterminazione e l’interpretazione di Copenaghen sarebbero crollate. Se pensate, dunque, che Einstein avesse messo Bohr nel sacco, vi sbagliate, perché il fisico danese trovò una soluzione. Egli si rese conto che per misurare la variazione di moto della prima tavola, sarebbe stato necessario dotare lo strumento di una scala. Per misurare la variazione di scala, inoltre, sarebbe stato necessario misurare la scala stessa, attraverso l’illuminazione. Così facendo, però, la quantità di moto trasferita allo strumento sarebbe stata diversa, in virtù del fatto che per illuminare lo strumento dovrei trasferirli dei fotoni, che come sappiamo sono dotati di  una certa quantità di moto.



L’esperimento delle due fessure



L’esperimento precedentemente proposto da Einstein è il famoso esperimento delle due fessure, ma  l’implicazione appena descritta non è la sola. Questa volta è l’interferenza ad essere l’oggetto della discussione. Se, infatti, facciamo passare un elettrone alla volta dalle due fessure, si formerà un’immagine di interferenza sullo schermo posto dietro. Mentre se si fa  passare un elettrone alla volta, da una sola fessura, non si crea nessun fenomeno di interferenza. Un elettrone come sappiamo può passare da una sola fessura, quindi, in entrambi i casi sullo schermo si dovrebbe osservare lo stesso fenomeno, ma non è così. Nel primo caso è come se l’elettrone interferisse con se stesso, ma per fare questo dovrebbe passare da entrambe le fessure e qui entra in gioco la dualità onda particella. Se dalle fessure ci passa una sola onda, è possibile che si crei interferenza, mentre se ci passa una particella no. Il che, secondo Bohr, dava adito alla sua interpretazione. Secondo il fisico, infatti, l’elettrone non ha traiettoria, e quindi passa da entrambe le fessure interferendo con se stesso, e comportandosi come un’onda. Mentre se si osserva da quale fessura passa, il solo atto di osservare dona una realtà fisica all’elettrone, che non interferirà più con se stesso. Ciò è dovuto al fatto che per osservare l’elettrone dobbiamo illuminarlo con un fotone, il che gli dona la caratteristica di particella. In pratica se non si osserva da quale fenditura passa l’elettrone, si creerà l’interferenza, poiché esso si comporterà come un’onda. Mentre se si osserva la sua direzione, esso, acquisterà la natura di particella e non interferirà con se stesso. In definitiva è l’esperimento stesso che determina la natura dell’elettrone.



La scatola di luce di Einstein



A questo punto la sfida tra Einstein e Bohr sembrava essersi conclusa in favore di Bohr, ma Einstein aveva ancora un asso nella manica: la scatola di luce. Un giorno, nel 1930, i due fisici si ritrovarono e Einstein propose un nuovo esperimento mentale a Bohr: ammettiamo di avere una scatola piena di luce ( e quindi al suo interno ci saranno un numero finito di fotoni). La scatola deve essere appesa ad una molla per essere pesata prima e dopo l’esperimento. All’interno della scatola mettiamo un orologio collegato ad un otturatore e  sincronizzato con un secondo orologio in laboratorio. In un determinato momento l’orologio deve far aprire l’otturatore che deve far uscire un solo fotone. In questo modo si conosce il momento preciso in cui il fotone esce dalla scatola. Inoltre, avendo precedentemente pesato la scatola, si conosce perfettamente la massa dell’elettrone. In questo modo sono chiari velocità e massa dell’elettrone, in contrasto con il principio di indeterminazione e con l’interpretazione di Copenaghen. Bohr in quel momento si sentì sconfitto, ma non si arrese. Dopo lunghe riflessioni arrivò alla soluzione del problema. Il fisico sosteneva che l’orologio doveva essere sincronizzato con quello in laboratorio, altrimenti per osservare l’altro, quello dentro la scatola, si modificherebbe lo strumento stesso. Inoltre gli orologi devono stare alla stessa altezza, in quanto secondo la teoria della relatività generale, un orologio che si trova su un soffitto, differisce da quello sul pavimento, per trecento parti su un milione di miliardi.  Ma se la scatola è attaccata ad una molla, allora nel momento in cui esce il fotone, l’altezza a terra della scatola sarà diversa, e quindi per effetto della teoria della relatività i due orologi non sarebbero più sincronizzati. Tutto questo in accordo con il principio di indeterminazione e con l’interpretazione di Copenaghen. Einstein si era dunque dimenticato della sua teoria, e per l’ennesima volta era stato battuto da Bohr.

I due nonostante la grossa competizione in cui erano a capo, furono grandi amici nella vita e rispettosi l’uno dell’altro. Correva molta stima tra i due, anche se le loro idee erano così contrastanti. Al giorno d’oggi non si può dare ragione a l’uno o all’altro con certezza, ma molti esperimenti danno comunque sempre ragione a Bohr. In particolare esiste un teorema ideato da John Bell, che dovrebbe chiarire le idee sulla reale interpretazione della meccanica quantistica, ma di questo ne parleremo in seguito.



Il paradosso EPR



L’ultimo e più famoso esperimento mentale utilizzato per definire la meccanica quantistica come incompleta, fu il paradosso ideato da Einstein, Podolsky e Rosen. L’esperimento consisteva in questo: se io considero due particelle A e B, le faccio interagire, e poi le spedisco ad anni-luce di distanza, posso trovare la posizione e la velocità di una delle due particelle senza perturbarla. In questo caso non si sarebbe soggetti al principio di indeterminazione di Heisenberg poiché non ci sarebbe interazione con la particella. Ma come avviene tutto ciò? Allora, abbiamo detto che l’esperimento consiste nel far interagire due particelle e nel dividerle ad anni luce di distanza. Dunque nello stesso istante in cui andremo a conoscere la posizione e velocità della particella A,  conosceremo la posizione e la velocità di B, in quanto entrambe hanno interagito e si sono unite in entanglement. Questo processo è ancora misterioso, ed è come se ci fosse uno scambio di informazioni a distanza illimitata, anche a velocità maggiori di quella della luce. Mi spiego meglio. Il senso è semplice: queste particelle vengono fatte interagire, perciò sono dotate di spin opposti, per il principio di esclusione di Pauli. I loro spin, però, si trovano in una sovrapposizione di stati, in quanto non viene effettuata una osservazione su di essi; la loro natura, quindi, non è ancora definita.  Però, nel momento in cui saranno portate ad anni luce di distanza, la misurazione effettuata sulla prima particella, automaticamente renderà evidente lo spin dell’altra. L’altra particella, quindi, non esisterà più in una sovrapposizione di stati, ma acquisterà uno spin reale. Il problema però è questo: chi dice alla seconda particella che la prima è stata osservata? È come se ci fosse uno scambio di informazioni che viaggia a velocità maggiori di quella della luce. Ciò, però, è in disaccordo con la teoria della relatività, la quale nega quel tipo di velocità. Bohr controbatté affermando, che se si fanno interagire due particelle, esse fanno parte del solito sistema, quindi è indifferente se le allontano oppure no, ci dovrà essere comunque un osservazione su una delle due particelle, in accordo con il principio di indeterminazione.



Il teorema di Bell



La fisica classica ha sempre affermato che conoscendo le proprietà di un corpo in un determinato momento, è possibile conoscerne le sue proprietà in un momento futuro. Nel senso che se io lancio una pallina ad una certa velocità, in una determinata direzione e con una certa forza, potrò conoscere dove andrà a cadere. La meccanica quantistica afferma che nel mondo dei quanti questo non avviene a causa del principio di indeterminazione. Il paradosso EPR voleva in qualche modo dimostrare che alla meccanica quantistica mancava qualcosa, che non era completa. Einstein, Podolsky e Rosen volevano dimostrare la necessaria esistenza delle variabili nascoste, che dovrebbero rendere completa la teoria. Attraverso queste variabili sconosciute si dovrebbe dare una natura determinata anche alle particelle, si dovrebbe quindi sapere dove andrà a cadere la pallina. Bohr e molti altri, invece, sostenevano che la natura indeterminata delle particelle è parte integrante della realtà. Non sono le nostre menti a non concepire altre leggi fisiche sconosciute, ma l’indeterminazione è intrinseca nella realtà. L’indeterminazione è un elemento della natura, non se ne può fare a meno.

Molti anni dopo la morte di Bohr e Einstein, un matematico irlandese sviluppò un teorema per capire chi avesse ragione: il teorema di Bell. Nel 1967 Bel formulò le sue disuguaglianze che gli permettevano di verificare o meno l’esistenza delle variabili nascoste. Attraverso la verifica fatta su coppie di particelle entanglement, i risultati dimostravano che le disuguaglianze di Bell non erano rispettate, il che implicava che non dovessero esistere altre variabili nascoste. Così cadde la realtà oggettiva di Einstein e vinse ancora una volta l’interpretazione di Copenaghen. Ad oggi i risultati dimostrano che le variabili nascoste non esistono e che la realtà oggettiva di Einstein è meno probabile dell’interpretazione di Copenaghen.

Esistono molte altre interpretazioni della fisica quantistica e ancora la scienza non può conoscere con esattezza quale sia quella giusta. Naturalmente la natura indeterminata delle particelle è un dato di fatto, ma anche  il fatto che la terra fosse piatta era certo, prima che Galileo dimostrasse il contrario.



Altre interpretazioni della meccanica quantistica



Abbiamo precedentemente compreso che esistono diverse interpretazioni della meccanica quantistica, e in particolare, abbiamo parlato dell’interpretazione di Copenaghen e della realtà oggettiva di Einstein. Queste due interpretazioni sono state oggetto di maggiore discussione, in quanto si trovano agli opposti, e descrivono quindi un’idea generale dell’ampiezza dell’argomento. Adesso è arrivato il momento di parlare delle altre interpretazioni, ma non è fondamentale descriverle tutte, perciò mi soffermerò sulle più curiose. La prima di cui voglio parlare è l’interpretazione a molti mondi. Essa eviterebbe il collasso della funzione d’onda. In pratica l’interpretazione afferma che ogni possibile stato del sistema diventa reale, e quindi, per esempio, nel caso della sovrapposizione dello spin, si formerebbe un mondo in cui lo spin è su, e uno in cui lo spin della stessa particella è giù. Da ciò si deduce che ogni possibile configurazione dell’universo diventi reale, e quindi, che in ogni istante si formino molti mondi diversi. In pratica dovrebbe esistere un multiverso in cui molti noi si comporterebbero in tutti i modi possibili. L’altra interpretazione è detta onda-pilota ed è stata formulata da Bohm sull’idea di de Broglie, secondo cui l’onda, come nel caso delle onde sonore, è solo il mezzo che trasporta la particella. Diciamo che come un surfista cavalca le onde dell’oceano, le particelle, secondo questa teoria, dovrebbero cavalcare le onde quantistiche.



Onde, particelle e probabilità



Riassumendo la meccanica quantistica potremmo dire che ad ogni particella è associata un’onda di probabilità, la cui natura non è puramente matematica: essa esiste sottoforma di quantità inosservabile. Ovvero non è possibile osservare l’onda vera e propria, ma essa ha effetti reali, perciò è una quantità intrinseca della natura. Il fatto, inoltre, che l’onda descriva tutte le possibilità che una particella si trovi in una determinata posizione in un determinato momento, la rende una quantità estremamente inosservabile. È come se una definizione puramente probabilistica avesse effetti reali sulla natura. Possiamo dire, quindi, che le particelle come l’elettrone, si trovano in una situazione indeterminata, miscelati in molti strati all’interno di un sistema. Un elettrone lasciato a se stesso, e quindi non osservato, non esiste qui o lì, ma esiste in ogni luogo a seconda delle probabilità. Bene, in quel momento l’elettrone è un’onda, e in quanto tale ha la facoltà di interferire con se stesso al momento del passaggio da due fessure. Solo nel momento in cui si effettua l’osservazione, la sua natura diventa corpuscolare. E ciò avviene in seguito al collasso della funzione d’onda. L’elettrone che prima esisteva miscelato in vari stati, sottoforma di probabilità, ora acquista una natura determinata di particella: è qui o li. Tutto questo sempre entro i limiti permessi dal principio di indeterminazione, il quale, definisce un limite di osservabilità all’elettrone anche in forma corpuscolare. Questi limiti dettati dal principio, sono il confine di determinazione che rende la dualità onda particella, una natura fisica.



Sovrapposizione degli strati



La meccanica quantistica fonda la sua esistenza sulla sovrapposizione degli stati. Ma cosa sono gli stati? Come abbiamo detto nel paragrafo dedicato al principio di esclusione di Pauli, ogni particella ha un determinato stato quantico. Uno stato quantico è definito da alcuni valori, come lo spin, la forma dell’orbita, etc. Ognuna di queste proprietà ha diversi gradi di libertà (come il su e giù, nel caso dello spin). Quindi nel momento in cui si compie l’osservazione di una particella, automaticamente si conosceranno le sue proprietà, ad esempio: tale elettrone ha tale spin, determinata posizione nello spazio,  energia tot, etc. Quindi un elettrone osservato, presenta uno stato quantico ben definito. Ma come abbiamo ripetuto più volte, un sistema quantistico che non è sottoposto ad osservazione, si comporta in maniera ondulatoria. In particolare una particella che non interagisce con un'altra, come un fotone con un elettrone, si comporta come un onda. L’onda, come abbiamo già detto, è una quantità inosservabile che descrive le ampiezze di probabilità che i vari stati di una particella possono avere. Al momento dell’interazione del fotone con l’elettrone ( è solo un esempio), avviene il collasso della funzione d’onda e la particella acquista natura determinata, diventano tale. Ma quando l’elettrone o qualsiasi altra particella sono onde, quali sono le loro proprietà? Dove si torva la particella? Qui o li? Con spin giù o su? Quanta energia possiede? Bene, i vari stati della particella si trovano miscelati e quindi sovrapposti. Quindi la particella si trova in tutti i luoghi e in tutte le maniere. Solo dopo il collasso della sua funzione d’onda la sua natura diventa determinata. La sovrapposizione degli strati è una condizione nella quale di trova la particella prima di essere osservata. Come il gatto di Schrödinger, che prima di essere osservato è sia vivo, sia morto.  



Uno sguardo che cambia l’Universo


Non potrei volgere la mia descrizione ad altri argomenti, senza prima avervi presentato la più incredibile delle storie quantistiche. Siamo nell’anno 2111 e ci troviamo nella stazione spaziale internazionale. In questo momento stiamo mettendo appunto gli ultimi preparativi per compiere l’osservazione di una quasar lontana dieci miliardi di anni-luce da noi. Tutto è pronto e la nostra equipe si dirige nella sala osservazioni. Il nostro esperimento sarà destinato a rendere reale una teoria già da tempo sviluppata. Attraverso un gioco di rilevatori e specchi semiriflettenti ci accingiamo ad osservare la luce che è partita dalla quasar dieci miliardi di anni fa. Questa luce, però, due miliardi di anni dopo aver intrapreso il percorso per giungere fino a noi, ha incontrato una galassia. L’effetto provocato da un simile incontro ha permesso alla luce di dividersi in due fasci che aggirano la galassia da parti opposte. Ciò è dovuto all’effetto di lente convergente definito da Einstein, in quanto le galassie, come tutti gli oggetti dotati di massa, curvano lo spazio-tempo. Fatto sta che i fotoni hanno aggirato la galassia in parti opposte, il che implica che ogni fotone sia passato da entrambi i lati. È dunque evidente che i fotoni durante il loro percorso si sono comportati come onde e non come particelle. Al momento della rilevazione, la nostra equipe, ha due possibilità di svolgere l’esperimento. Può osservare l’interferenza provocata della onde, o può rilevare i singoli fotoni. Allora proviamo a chiederci se il fotone otto miliardi di anni fa, è passato da entrambi i lati della galassia, oppure se si è comportato come una particella, ed è passato da un solo lato. La risposta risiede nelle nostre menti. Cioè siamo noi, che durante l’esperimento, decidiamo quello che il fotone ha fatto otto miliardi di anni fa. Infatti a seconda dell’esperimento che noi decideremo di effettuare, il fotone ci apparirà un’onda o una particella. Nel primo caso significherà che il fotone è passato da entrambi i lati della galassia, mentre nel secondo caso, esso, sarà passato da un solo lato. Ma possiamo fare di più: possiamo decidere qual è il lato che il fotone ha percorso! È come se i fotoni prima di partire per il loro percorso sapessero già quello che noi uomini avremmo voluto misurare. Incredibile vero? Einstein non si dava pace, non ha mai accettato queste stranezze della meccanica quantistica. Purtroppo o per fortuna, però, questi esperimenti sono stati provati e riprovati in laboratorio, quindi in linea di principio niente vieta che questi effetti possano verificarsi anche con l’osservazione di Quasar lontanissime.     





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