La teoria della
relatività
Albert Einstein
Premessa sul modo
di interpretare le osservazioni
Prima di partire per il nostro viaggio nella teoria
di Einstein, vi devo fare delle precisazioni sul modo di interpretare le
osservazioni. Se un osservatore si trova su un treno che viaggia in moto
rettilineo uniforme, e lo stesso osservatore fa cadere una pallina in terra,
vedrà che essa si muove in linea retta. Mentre se lo stesso evento viene
osservato da un osservatore esterno, la traiettoria della pallina osservata da
quest’ultimo, compierà una parabola. Questo esempio ci permette di comprendere
che non esiste un sistema di riferimento privilegiato per compiere un
osservazione, ma esistono diversi sistemi di riferimento a seconda della
situazione.
Detto questo possiamo partire..
La teoria della relatività formulata da Albert
Einstein nei primi del novecento, si divide in relatività ristretta e
relatività generale.
Relatività
ristretta
Arrivati a questo punto dovrete
seguirmi attentamente e non perdere nemmeno una parte di quello che vi dirò. La
relatività ristretta si basa su due principi, il principio di relatività (da
non confondere con la teoria) e la legge di propagazione della luce. Il
principio di relatività implica che ogni teoria fisica non sia valida, se per
situazioni simili non preveda le stesse leggi. La legge di propagazione della
luce, invece, dice che essa si muove con una velocità costante di circa 300 000
km/s. Fino a qui tutto bene, ma ad Einstein venne un intuizione fenomenale. Lui
si rese conto che secondo le leggi fisiche che esistevano al tempo, i due
principi appena elencati non potevano andare d’accordo. Seguitemi. Immaginatevi
di avere un autovelox in mano. Allora il funzionamento di questo oggetto è
semplice: al momento della misurazione, l’autovelox manda delle onde
elettromagnetiche verso la macchina, che si scontrano con essa e tornano in
dietro. L’autovelox misura il tempo che ci mette il segnale a tornare in dietro
e calcola la distanza che c’è tra lo strumento e la macchina. Ora, il veicolo
in moto percorrerà una distanza, quindi calcolando ogni istante la differenza
di distanza che si trova tra l’autovelox e la macchina, si trova la velocità di
quest’ultima. Tutto questo cosa c’entra con la teoria della relatività?
Immaginatevi di misurare la velocità di un treno con l’autovelox. Se siete
fermi e il treno viaggia a 100 km/h, allora voi misurerete questa velocità. Ma
se vi muovete verso la direzione del treno, alla velocità di 10 km/h, le cose
cambiano. Percorrendo una distanza nella direzione del treno, le onde
elettromagnetiche che manderete verso il treno, al ritorno misureranno meno
distanza. Per farla semplice, immaginatevi di far rimbalzare una pallina da
tennis nel muro. Se state fermi, essa percorrerà sempre il solito percorso, ma
se vi muovete verso di essa, quando la riprenderete, la distanza percorsa dalla
pallina sarà minore. Allora se la vostra velocità è di 10 km/h nella direzione
del treno che viaggia a 100 km/h, l’autovelox misurerà 100 km /h – 10 km/h e
quindi 90 km/h. Fino a qui tutti d’accordo. Ma se estendiamo queste prove con
la luce, cosa succede? Secondo la legge di propagazione della luce, essa
viaggia con velocità costante di 300 000 km/h, e il principio di relatività
dice che le stesse leggi devono valere per tutte le situazioni simili. Però se
misuro velocità della luce con un autovelox (nella realtà non è possibile),
muovendomi con una velocità nella direzione della luce, il principio che valeva
per il treno, deve valere anche per essa; e quindi al momento della
misurazione, vedrò che la luce si muove più lentamente rispetto alla sua
costante. Ad esempio se mi muovo a 100 00 km/s nella direzione della luce, la
velocità misurata con l’autovelox sarà: 300 000 km/s (velocità della luce) –
100 000 km/s = 200 000 km/s. In questo caso la luce perderà la sua costante
infrangendo la legge di propagazione della luce. Questo non è possibile, allora
l’unica soluzione è che il principio di relatività non sia valido, e che
quindi, misurando la velocità della luce,
non valgono le stesse leggi che valgono per la misurazione del treno. No no, mi
dispiace, ma nemmeno questo è possibile. Allora qual è la soluzione? Ecco che
qui entra in gioco la teoria della relatività di Einstein. Il succo della
teoria è questo: per far valere i due principi contemporaneamente, bisogna
considerare lo spazio e il tempo come entità variabili. In pratica lo spazio e
il tempo si devono in qualche modo adattare alla velocità della luce. Quindi
all’aumentare della velocità diminuisce il tempo e aumenta la massa. Fino a
quando si arriva alla velocità della luce in cui il tempo diventa infinito e la
massa pure. In teoria se riuscissimo a raggiungere quelle velocità vivremo in
eterno, e avremo una massa maggiore di quella dell’attuale universo,
addirittura infinita. Proprio per questo non si possono raggiungere quelle
velocità, riservate solo ai fotoni, che sono particelle di luce prive di massa.
Grazie a questa teoria possiamo mantenere il principio di relatività e la legge
di propagazione della luce. Nel nostro caso se ci muovessimo verso la luce e ne
misurassimo la velocità, essa rimarrebbe invariata, indipendentemente dalla
nostra velocità di moto, proprio perché lo spazio e il tempo si adatterebbero
alla velocità della luce.
Immaginatevi dunque, di avere un fratello gemello
che parte per un viaggio interstellare. La velocità della sua astronave
raggiunge quasi quella della luce (240000km/s), così che al suo ritorno dopo 20
anni sarà invecchiato di soli 12 anni. Ciò significa che il vostro ipotetico
gemello al suo ritorno dal viaggio, sarà molto meno vecchio di voi. Questo che
vi ho appena descritto è il paradosso dei gemelli, che viene spesso utilizzato
per descrivere la teoria della relatività. Anche se a primo acchito questo
paradosso sembra assurdo, in realtà è proprio quello che accadrebbe nella
realtà.
Ora abbiamo descritto la teoria della relatività, ma
dubito che qualcuno abbia veramente capito il senso. Quindi ora descriveremo il
concetto di spazio e di tempo e poi cercheremo di capire meglio la loro
relatività.
Il tempo
Sant’Agostino disse a proposito del tempo: “Se nessuno me ne chiede, lo so bene: ma se volessi darne
spiegazione a chi me ne chiede, non lo so”.
Quello che noi associamo al tempo è solo una
convenzione di numeri che corrispondono ai secondi, ai minuti e alle ore. Ma la
descrizione di tempo non si può fermare a questa convenzione, perciò voglio
porvi un curioso quesito che vi può aiutare nella comprensione più profonda del
significato di tempo: “Perché non ricordiamo il futuro?” Il concetto di tempo è
spesso associato all’idea di passato presente e futuro, ma perché ricordiamo il
passato e non il futuro? La risposta a questa domanda non è così scontata come
può sembrare. Infatti le leggi della fisica non distinguono il passato dal
futuro. Partiamo da tre definizioni: C, P, T. Per C si intende lo scambio tra
particelle e antiparticelle. P è l’assunzione dell’immagine speculare (quindi
la destra diventa sinistra). T è l’inversione del moto di tutte le particelle.
In un mondo con C P T la materia sarebbe
antimateria, la desta sinistra e il tempo andrebbe dal futuro al passato. La
cosa sorprendente è che, nonostante possa essere assunto un modello fisico in
CPT, le leggi della fisica rimarrebbero invariate; quindi non c’è niente di
assurdo nel considerare un mondo in cui il tempo scorre all’indietro. Eppure
nella vita quotidiana sperimentiamo lo scorrere nel tempo nella direzione
passato-futuro. L’unica spiegazione alla nostra esperienza deriva dalla seconda
legge della termodinamica. Secondo la seconda legge della termodinamica, però,
l’entropia di un sistema è destinata ad aumentare e di conseguenza il disordine
dell’universo è in aumento. L’entropia in questo caso ci da la direzione del
tempo, che viene distinto da passato e futuro. In pratica è come se la freccia
del tempo si dirigesse verso la freccia termodinamica.
Di nuovo sulla relatività ristretta
Abbiamo appena spiegato cos’è lo spazio e cos’è il tempo. Ora
dobbiamo solamente metterli in relazione con la velocità della luce. Secondo
quello che abbiamo precedentemente detto, la velocità della luce rimane
costante indipendentemente dal moto dell’osservatore, quindi lo spazio e il
tempo sono soliti adattarsi a questa velocità. In teoria più mi avvicino alla
velocità della luce e più il tempo scorre lentamente, mentre la massa aumenta.
Ma come avviene tutto questo? Pensate ad una astronave così lunga, che la luce,
partendo dalla cima, ci mette un secondo per arrivare alla coda. Ora
considerate che agli estremi ci siano due persone, con due orologi
perfettamente funzionanti. L’uomo nella cima, manda un segnale luminoso all’uomo sulla coda, ogni
secondo. Quando il segnale arriva all’uomo sulla coda, esso conta un secondo, e
manda a sua volta un segnale luminoso all’uomo sulla cima. Allora, se
l’astronave sta ferma, la luce andrà avanti e indietro segnando sempre un
secondo. Mentre nel momento in cui l’astronave acquista velocità, il segnale
che parte dall’uomo sulla cima, arriverà all’uomo sul fondo molto prima, in
quanto lo spazio si è adattato alla luce. Quindi il tempo che la lancetta
dell’uomo in movimento, ci mette a segnare un secondo, sarà minore del tempo
impiegato dalla lancetta di un uomo a terra.
Differenza di tempo
negli orologi
Il tempo che una lancetta, di un osservatore fermo, ci mette a
segnare un secondo, per una persona che viaggia a 240 000km/h, ci mette più di
un secondo e mezzo. Quindi il tempo della persona in movimento durerà di più,
del tempo della persona ferma. Questo avviene in maniera esponenziale all’avvicinarsi
alla velocità della luce; così che il tempo di una persona che viaggia alla
velocità della luce, sarà infinito. In teoria, quindi, una persona che viaggia
alla velocità della luce potrebbe vivere in eterno. Il problema è che non
possiamo raggiungere la velocità della luce, per il semplice fatto che
servirebbe una massa infinita. Allora la luce come fa a viaggiare alla sua
velocità? Semplicemente perché i fotoni che sono particelle di luce, hanno
massa 0.
Relatività
generale
La relatività ristretta, permetteva ad Einstein
di formulare la descrizione di fenomeni meccanici ed elettromagnetici solo per
un osservatore in moto rettilineo uniforme. Il suo scopo, però, era quello di
estendere la sua teoria ad ogni fenomeno dell’universo. Per fare questo prese
come punto di partenza ciò che fa muovere l’universo stesso: la gravità. Per
descrivere questa forza, Einstein, partì con la dimostrazione di due principi.
Il primo, detto “Principio di equivalenza” afferma che: un campo gravitazionale
è equivalente (localmente) ad un sistema in moto uniformemente accelerato.
Dunque, da tale legge se ne evince che se ci trovassimo in un’astronave nello
spazio, in cui non vi è forza gravitazionale, ma vi è un’accelerazione
equivalente a quella forza, non potremo concepire la differenza tra le due
situazioni. Infatti se lasciassimo cadere una pallina per terra, la vedremo
cadere alla stessa velocità. Per cui non vi è distinzione tra un sistema in
moto uniformemente accelerato e un campo gravitazionale. Il secondo principio
dice che le leggi devono essere formulate in modo da non dipendere dal luogo o
dal moto dell’osservatore. Accondiscendo da questi due principi, si ricava che
un campo gravitazionale, comportandosi come un moto uniformemente accelerato,
modifica lo spazio-tempo; e che quindi, in presenza di masse, il tessuto
spazio-temporale si curva. Le masse,
quindi, come quelle dei pianeti, modificano il tessuto spazio-temporale in modo
da curvarlo. La massa a sua volta risentirebbe della curvatura del tessuto
movendosi di conseguenza. Da questo si riconduce il fatto che i pianeti ruotano
intorno al Sole, in quanto essi tendono a scivolare nel tessuto spaziotemporale
curvo verso il centro di massa, ma non vi cadono perché loro stessi modificano
il tessuto, in maniera minore. Tutto ciò regola un equilibrio tale, da
permettere ai pianeti di ruotare intorno al Sole. In realtà, anche se in
maniera infinitamente piccola, anche noi deformiamo il tessuto spazio-temporale,
in quanto siamo dotati di massa. La geometria dell’universo quindi non è piatta
come si è creduto per secoli, ma le masse la modificano curvandola.
Il problema, però, era che fino a quel momento tutti gli
scienziati del mondo erano perfettamente sicuri che la legge della gravitazione
universale di Newton permettesse la descrizione della gravità in ogni
situazione. In effetti, a parte poche eccezioni, era proprio così. La legge di
Newton, infatti, permetteva di calcolare il moto di tutti i pianeti, a parte
uno: Mercurio. Il pianeta ha sempre celato meraviglia nella sua orbita, infatti
l’angolo che viene descritto dalla linea che congiunge Mercurio-Sole, durante
il periodo tra due perielio, si discosta di 43’’ ogni secolo. Capito? No
assolutamente no, a dire la verità non mi sono capito nemmeno io. Allora,
proviamo a spiegarlo meglio. Prima di tutto sappiamo che i pianeti ruotano
intorno al sole descrivendo delle ellissi. E sappiamo che il sole si trova in
uno dei due fuochi dell’ellisse, e quindi non in posizione centrale, ma
spostato sulla linea che unisce i due punti più lontani dell’ellisse, in modo
da agire come centro di massa. A questo punto possiamo capire che cos’è il
perielio, ovvero la distanza minima pianeta-Sole. L’orbita di Mercurio, però,
subisce molto la forza gravitazionale del Sole, per cui l’angolo che si forma tra
la linea Mercurio-Sole, durante un perielio, e quella del perielio successivo,
non forma un angolo di 360°, ma qualcosa di più, che nel corso di un secolo va
a sommarsi in 43’’ d’arco. Comunque sia, è una cosa molto semplice, anche se ha
bisogno di essere riletta due o tre volte, ma se non ne avete voglia prendete
per buono il fatto che l’orbita di Mercurio si comporta in maniera anomala
rispetto a quella degli altri pianeti. Tornando alla relatività generale,
abbiamo detto che il punto di partenza di Einstein, per formulare la sua nuova
teoria, era la gravità. Inoltre abbiamo detto che fino a quel momento tutti gli
scienziati erano convinti che tutto funzionasse secondo la legge dalla
gravitazione universale di Newton. Ora, sappiamo che Mercurio ruota intorno al
Sole per effetto della gravità, per cui possiamo dedurre che le leggi di Newton
o la teoria di Einstein, propongano una soluzione alla differenza del suo angolo
di perielio. Addirittura potremo dire che la teoria che descriverà il fenomeno
sarà quella corretta. E infatti così fu. La teoria di Einstein, in accordo con
i dati sperimentali, permetteva di calcolare perfettamente la differenza di secondi
d’arco nell’orbita di Mercurio. Ma la prova definitiva della ragione di
Einstein venne durante l’osservazione dell’eclissi solare del 29 maggio 1919.
In quel giorno nuvoloso Eddington ed il suo collega erano stati inviati in
Africa per dimostrare la teoria della relatività generale. Normalmente il Sole
non consente di fare osservazioni nelle vicinanze della sua circonferenza.
Durante un'eclissi però è possibile osservare un evento particolare. Infatti,
la luce che ci arriva dalle stelle mostra la loro posizione nella volta
celeste. Osservando, quindi, la configurazione delle stelle su questo piano, è
possibile conoscere la loro posizione durante un determinato momento della
giornata. Conoscendo quindi la posizione delle stelle che si trovano dietro al
Sole durante l'eclissi, possiamo osservare come la gravità del Sole devia la
direzione della loro luce, rendendosi visibili fuori dalla circonferenza della
nostra stella. Così i due scienziati fotografarono la posizione delle stelle
che si dovevano trovare dietro al Sole e
confrontarono la posizione con delle lastre scattate in altri momenti.
Il risultato dell’esperimento fu che Einstein aveva perfettamente ragione, e la
teoria della relatività generale divenne la nuova descrizione della gravità.
Struttura dell’Universo
in conseguenza della relatività
Tutto quello che impariamo nelle scuole medie sullo spazio
fonda le sue basi sulla geometria euclidea. Euclide, il filosofo che ha fondato
questa grande disciplina, ai suoi tempi mise appunto alcuni postulati che racchiudono
tutto quello che possiamo sapere su uno spazio piatto. La sua opera più
importante, gli “Elementi”, racchiude questi postulati, che in tutto sono
ventitre, ma di cui esporrò solo i primi cinque:
Un segmento di linea retta può essere disegnato unendo due punti a caso.
Un segmento di linea retta può essere esteso
indefinitamente in una linea retta
Dato un segmento di linea retta, un
cerchio può essere disegnato usando il segmento come raggio ed uno dei suoi
estremi come centro
Tutti gli angoli retti sono
congruenti tra loro.
Se due linee sono disegnate in modo da intersecarne
una terza in modo che la somma degli angoli interni, da un lato, sia minore di
due angoli retti, allora le due linee si intersecheranno tra loro dallo stesso
lato se sufficientemente prolungate.
Ma tra questi postulati ne spicca uno di maggiore
importanza, in quanto ha spianato la strada per la scoperta di nuove teorie. Il
quinto postulato di Euclide cerca di definire due rette parallele, affermando
inoltre, che per un punto esterno ad una retta passa una e una sola
perpendicolare ad essa. Ma non c’era modo per poter provare l’infallibilità di
questo postulato, almeno che non si provasse a dimostrare la sua fallibilità.
In quel modo se non fosse possibile dimostrare che è fallibile, si potrebbe
dimostrare la sua attendibilità. Così facendo i matematici hanno compreso che
vi sono altre geometrie, infinite altre geometrie, così che la scienza che per
maggiore doveva avere il carattere di essere pienamente compresa dagli uomini,
acquistò il carattere di infinitezza. Due delle altre geometrie, sono quella
curva e quella iperbolica. Due parallele che si trovano in uno spazio piano,
quando vengono messe in uno spazio curvo, si incontrano. Mentre quando vengono
messe in uno spazio iperbolico si allontanano sempre di più l’una dall’altra.
Quando venne scoperta la teoria della relatività da Einstein, esistevano già
queste geometrie, ma quello che viene da chiedersi ora è: la geometria
dell’Universo è piatta, curva o iperbolica? Come abbiamo detto nel paragrafo
precedente, lo spazio tempo si curva in presenza delle masse, in quanto il campo gravitazionale da loro prodotto si
comporta come un moto uniformemente accelerato. Da tutto questo si può ipotizzare
che la struttura dell’Universo su larga scala sia curva, in quanto al suo
interno ci sono moltissime masse. In realtà le cose sono molto diverse. Lo
spazio è estremamente grande, per cui anche le galassie, le stelle e gli
ammassi rocciosi che lo occupano, sono in numero troppo basso per curvarlo a
grande scala. Ma un esperimento in particolare ha messo luce sulla vera
struttura dello spazio. L’esperimento è stato chiamato BOOMERANG ed è stato
progettato dall’Università degli studi di Roma La sapienza. Un pallone
stratosferico è stato lanciato a 37 km di altezza, dall’Antartide. Al suo
interno è stato montato un telescopio che inviava la radiazione ad un
rilevatore raffreddato a 3 decimi di grado sopra lo zero assoluto, per evitare
disturbi da parte del rilevatore stesso. Con questo esperimento è stato
osservato l’Universo poco dopo la sua origine, e, a seconda dall’angolo che si
formava tra il telescopio e le strutture osservate, era possibile stabilire il
tipo di struttura dello spazio. Infatti se lo spazio fosse stato curvo la luce
avrebbe seguito una linea curva e l’angolo sarebbe stato maggiore, dell’angolo
che si sarebbe formato nel caso fosse stato piatto. Mentre se l’angolo fosse
stato inferiore dell’angolo formatosi in caso di piattezza, lo spazio sarebbe
stato iperbolico. Quello che realmente è stato osservato rappresenta la
geometria dello spazio su grande scala come euclidea, e quindi piana. Ma
un’ulteriore considerazione deve essere fatta. Come abbiamo ripetuto più di una
volta, le masse curvano il tessuto spaziotemporale, e quindi la struttura dello
spazio su grande scala sarà in relazione
con la quantità di massa presente nell’Universo e quindi alla densità di
quest’ultimo. La densità dell’Universo non è calcolata solo in base alla
materia visibile (materia barionica), ma anche con la materia oscura e
l’energia oscura. A questo punto, rapportando la densità dell’Universo osservabile,
con la densità critica, ovvero quella che permetterebbe allo spazio di essere
piano, potremo conoscere la struttura dello spazio. Il rapporto tra queste
densità è indicato con Ω e seguiranno tre possibilità: se Ω è uguale a 1 e
quindi la densità critica sarà uguale alla densità osservata la geometria dello
spazio sarà piana; se Ω è maggiore di 1 e quindi la densità osservabile sarà
maggiore della densità critica, allora lo spazio sarà sferico. Mentre
nell’ultimo caso, se Ω sarà inferiore a 1 allora lo spazio sarà iperbolico. In
conseguenza delle precedenti considerazioni, nelle quali abbiamo stabilito che
la geometria spaziale dell’Universo è piana, possiamo dire che il valore Ω deve
essere uguale a 1. In seguito ad altre analisi è venuto fuori che la materia
barionica rappresenta solo il 4% della densità critica e la materia oscura il
23%. Se ne deduce che per far tornare i conti ci deve essere una restante
quantità di massa che occupa il restante 73% della densità critica. Questa
parte è occupata dall’energia oscura.
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